La visione 4. Birdland

Birdland

Cambiamo completamente scenario. Siamo nel regno del jazz. Nottate incandescenti al Birdland fra gli anni Quaranta e Cinquanta. Jam session infinite, forsennate, danza, alcool, purtroppo anche droga come sappiamo, ma anche tanta musica, una musica che sembra pura energia, che sembra scaturire dalla terra stessa, o dall’inconscio. Eppure è una musica raffinata. Mentre tutti ballano e si scatenano, Charlie Parker, Bird, lui pensa. Su una ritmica semplificata e ridotta a puro impulso, su temi orecchiabili costruisce cattedrali di armonia. È l’orgia della raffinatezza, un trionfo di pensiero musicale e di istinto animale. Charlie Parker era un grande ammiratore di Stravinsky. Si dice che una volta improvvisò col suo sassofono sopra la berceuse dell’Uccello di fuoco. Peccato che non sia rimasta traccia di quell’improvvisazione! Ve la immaginate, ascoltare Bird che improvvisa sopra Stravinsky? Il jazz di Parker, come quello di Duke Ellington, è un jazz colto. Ed è follia credere che i ritmi spigolosi e semplificati del bebop abbiano a che fare con la suggestione che la musica di Stravinsky esercitò su colui che fu l’anima e il propulsore del bebop -Bird appunto? Ma non è solo questo. La sagra della primavera è un rito pagano apollineo. Il jazz -almeno il jazz di quegli anni- è pagano e dionisiaco. Quelle serate al Birdland, le serate nei club di quegli anni non erano diverse dalle serate nella Parigi del primo Novecento, non erano diverse dalle serate di Modigliani, “il Botticelli negro”, altro genio che univa nella sua arte raffinatezza e primitivismo. Non erano diverse dalle riunioni caotiche e rissose degli avanguardisti. Il jazz è un’avanguardia nata per caso, nata dall’innesto nella musica occidentale di qualcosa che non è occidentale, di qualcosa che appartiene a un passato mitico e barbaro. E che altro è La sagra della primavera? E che altro è Les damoiselles d’Avignon di Picasso, nata dall’incontro fra un pittore che veniva dalla periferia dell’Europa e l’arte mitica e barbara delle antiche statue africane e iberiche? Ancora una volta, un incontro fra la raffinatezza dell’astrazione e una tradizione antichissima che è un pulsare di energia purissima.

Ma restiamo nel jazz, e spostiamoci avanti di un paio di decenni. Ascoltiamo Charles Mingus, The black saint and the sinner lady. Su ritmi ostinati la band sciorina improvvisazioni che sembrano caotiche, e invece sono perfette. Tutto torna sempre al suo posto nella musica di Mingus. Anche il grande “bastardo” aveva alle spalle una formazione classica: aveva studiato col primo contrabbasso dell’orchestra di Toscanini, e si dice che ogni giorno ascoltasse musica di Bach. E anche questo suo album sembra erede delle novità musicali di Stravinsky. Stravinsky stesso, del resto, si avvicinò, in età matura, al jazz. Scrisse per orchestra jazz. Ma lo stesso Debussy ci si era avvicinato. L’ultimo pezzo della sua Children,’s corner per pianoforte, la Gollywood’s cake walk, altro non è che un ragtime. E, se i moderni pianisti fanno di tutto per non farla sembrare un ragtime, il rullo registrato dallo stesso Debussy non lascia dubbi: lui la pensava e la suonava come un ragtime puro.
Sapete cosa disse Debussy a Stravinsky alla prima esecuzione della Sagra? Disse: “Voi avete scritto una musica negra”. Tutto torna.