L’abbraccio

a cura di Lisa Orlando

Non vi amo più come il primo giorno. Non vi amo più come ieri. Vi amo nell’oggi, coeterna a voi. Ma oggi è (pur) domani? Un’ossessione moltiplicatoria di impossibilità, una prolificazione segreta di ammissibilità. Ma vi amo e so di amarvi a che serve mentire? Ogni parola potrebbe essere l’ultima. 

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Resta questa esaltazione che mi viene dal non sapere che fare di tutto questo, della conoscenza che – ora – ho della vostra bocca, dei vostri occhi, dal non sapere dove relegare il disegno di quell’uomo astratto, bruno, silenzioso?, e cosa poter dire di questo sentimento divenuto carnale? So soltanto questo: che non posso che subire questa esaltazione: perché chi più di me ha vissuto l’eterno commercio del nascere e morire? ma non so che fare di questa conoscenza della vita di una creatura viva, non so cosa fare di me stessa. (Il non Nulla si addice ancora a un corpo bruno?)

Dalle sedi temporali dicono che tra non molto sarà inverno. Ma ci sono ancora rose, laggiù, in fondo al sentiero. Che a volte non sono viste da nessuno per tutto il tempo della loro vita e per qualche giorno stanno così, nel loro profumo, dischiuse, e poi muoiono, petalo a petalo, sfinite in terra. Mai viste da nessuno, muoiono. Eppure quelle rose sono esistite, e nel loro sbocciare hanno dato vastità, cambiando il mondo del di fuori, benché nessuno le abbia mai viste.

Questa malattia, che mi fa vivere in costante astinenza dall’esistere, dissanguando la materia viva del mio corpo, mi unisce a voi. Ma noi non siamo le rose. Noi siamo nella disperazione di non poter essere nello stato di apertura d’una rosa. Eppure, è esattamente in questo: in ciò che in noi vi è di più debole che si sprigiona una forza – miracolosa! Come se nel punto estremo della nostra incapacità, ci sentissimo obbligati a liberare un’energia trascendente. Io vi amo, in questo slancio. Io vi amo, in questo continuo pericolo di totale perdita di voi. E’ così che mi state dinanzi, nella dolcezza, in una disperazione costante, innocente, impenetrabile. Commovente.

Voi non lo ignorate. Che io vi senta dolorosamente fin nel profondo. Che io sia nel vostro stesso dolore.

Ma ora, dove siete? Quando Javeh, dopo il peccato, domandò ad Adamo: dove fosse, la sua domanda significava che l’uomo non poteva che esser trovato nel solo luogo della domanda. Dove siete, dunque? Là dove m’avete invitato agli abbracci?

“Li volete ancora?”, mi avete chiesto.

Non per distrazione della vita, ma restando in contatto con questa offerta d’amore, davanti alla quale siamo rimasti tutt’e due in piedi, senza tradirla e senza fuggire, ritornando nello spazio della possibilità. E ora, eccolo, guardatelo insieme a me, il mondo (!), il mondo di cui siamo stati privati, tutto racchiuso in una panchina solitaria e anonima. E qui, eccitando la nostra forza di approvazione alla rosa, è avvenuto lo sboccio dei corpi, e dai corpi vivi, ma non privi del naturale calco della morte, l’abbraccio! – con una tale violenza piena di armonia. Chi può dirlo quanto è durato?

Un attimo.

Una eternità.

Ma la panchina, che rivedo, e sulla quale eravamo seduti è, ora, vuota. Tutto pare essere stato compiuto, ma fino a che punto? Fino alla nostra sparizione?, fino al nostro rovesciamento (ancora una volta) al di fuori dalla vita? Mi avete detto che non si guarisce mai dalla nostra malattia: raccontandoci continuamente l’orrore, in noi, vive; allora ho immaginato le nostre ferite malrichiuse sanguinare, senza sangue.

La panchina vuota è il mondo vuoto e il movimento dell’abbraccio l’ha riempito. Cosa fare di me; cosa fare di – noi (?); delle nostre esistenze non più ipotizzate? Voi non mi offrite indicazioni di segni per vie da percorrere. Se tornassimo lì, nella notte, in quello spazio vuoto non occupato da alcun corpo se non il nostro, e lo riconoscessimo come la sede in cui tutto potrebbe accadere? – e lì credere a che il movimento del sopraggiungere faccia appello a ciò che gli è più estraneo. In fondo non siamo luoghi tutti saccheggiati da guerre. Se noi non abbiamo volontà, noi possiamo? Rifare un granello di volta celeste alla terra.

C’è stato un tempo in cui sono esistiti un uomo e una donna che potevano toccare e sfiorare le cose, ed esse gli restituivano il loro consuetudinario segno di assenso, o ancor più: il riconoscimento del loro potere di toccare. Credo che quell’uomo e quella donna esistano ancora. Credo che quell’uomo e quella donna si siano addirittura abbracciati, nella vita e nella morte; e se lo hanno fatto – e lo hanno fatto! – allora hanno cambiato il di fuori del mondo e, come un ago che tenti di infilarsi in mille crune – il loro destino.

 

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