L’amico non amico, Jacques Derrida

L’amico non amico (Jacques Derrida)
a cura di Lisa Orlando

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In pagine molto belle di un importante saggio: “Politiche dell’amicizia”, Derrida, alla stessa stregua di Nietzsche, tenta di sottrarci a quel pensiero (torbido) che vuole persuaderci di come la passione amorosa appartenga al mondo della follia e l’amicizia a quello della saggezza. Nietzsche, infatti (arrischiando di promulgare la verità (?) impronunciabile), annunciò la follia dell’amicizia – “Amici, non ci sono amici” –, modulata ai bordi del suo contrario, di coloro che amano la solitudine e pur tuttavia si prefiggono l’arduo compito di condividerla. Amici (?) che non vogliono abdicare alla loro meravigliosa singolarità di spiriti liberi.

Derrida legge Nietzsche come colui che, dispiegando la carta del mondo, annuncia un nuovo modello di comunità: la comunità anacoretica di quelli che amano l’amore (e amare), ma a condizione d’un ritrarsi, meglio: di uno slegamento sociale. Comunità senza comunità, rinunciante all’annientamento dell’Altro nello Stesso, che non è caratteristica dei gruppi omologanti, i quali finiscono inesorabilmente per mettere al collo delle Singolarità il (brutale) capestro in nome di un’identità comune: stato, nazione, razza, eccetera.

Utopia? Illusione che svanisce nel vento della realtà? Tuttavia, quale sarebbe l’alternativa al nuovo modello immaginato? Schmit? (Derrida lo legge.) Il teorico dello stato di eccezione pone come fondamento della politica l’abbinamento di concetti amico/nemico che, conformemente al suo pensiero, verrebbe a fondare lo Stato, contrassegnato dal legame al suo interno di alcuni uomini (gli amici) che si opporrebbero in nome di questa appartenenza a gruppi esterni alla comunità statale (i nemici). Per Schmitt la dimensione politica si realizza nello scontro in cui i due termini di amico e nemico trovano la loro condizione estrema.

Ma (immaginando la luce…) è possibile concepire una politica (futura) in grado di accettare, ad esempio, di leggere nell’hostis (il nemico) anche ciò che abita ai suoi bordi, ossia l’hospes (l’ospite)? Che rigetti tutte le false antonimie, ampiamente criticate da Nietzsche? Che decostruisca quella democrazia fondata sul pilastro dell’uguaglianza (crollata da sempre come cenere morta?).

Quale giustizia, dunque, potremo rappresentarci per una democrazia (futura) che rinunci a fondarsi sul rapporto simmetrico di uguaglianza, ma che abbia invece come legame gli amici della solitudine, le Singolarità irriducibili. Questa giustizia, difformemente dal diritto, che cerca, attraverso norme uguali per tutti, di equiparare, dovrà, secondo Derrida, osare (!) il giudizio unico, irripetibile. È questo, tra l’altro, che differenzia il diritto dalla giustizia: al diritto spetta di equiparare, laddove la giustizia ha a che fare con un’asimmetria la quale richiede, di volta in volta, una decisione unica.

Contro la contrapposizione schmittiana: amico/nemico (che dà origine e incentiva lo stato di guerra), sarà necessario un pensiero che concepisca i due termini non contrapposti. Derrida a tal punto volge lo sguardo verso Lèvinas, il quale ha più volte proposto il tema dell’ospitalità: di fronte all’arrivo dell’Altro, dello Straniero – che si annuncia “come una sconvolgente istanza di disidentificazione” –, saremo inesorabilmente indotti a doveri e responsabilità smisurate. Giustizia che trascenda il diritto, ospitalità incondizionata, responsabilità – dinanzi alla realtà necessitante dell’altro; quando saremo pronti per un’esperienza nuova di democrazia che si ponga in un confronto rispettoso, giusto, e non prevaricante con quell’amicizia?, che non escluda l’altro come “nemico” e pur non lo riduca (miseramente) ad un altro se stesso?

Quando? Probabilmente mai.

Tuttavia (immaginando ancora la luce), potremo avvicinarci a quell’esperienza se, di fronte all’arrivo dell’Altro, alla (sua) istanza di disidentificarci, non (ci) negheremo, nel luogo dell’anima, l’impulso ad. amare = morire = ridurci – facendo vuoto. Ché far spazio all’Altro, consentendo la sua esistenza come assolutamente altra da noi, affinché si manifestino i suoi reali desideri, i suoi reali bisogni, è: – atto d’ a m o r e!

E, quando, in un approssimarci alla sorgente del bene, assorbiremo, in rapporto alla persona, il senso altissimo del sacro, riponendo – oltre il mondo – l’essere uomo. Il sacrilegio par excellence è aver negato (e continuare a negare) che: sacro è ogni uomo. Anche se «sacra non è la sua persona. E neppure la persona umana. Sacro è semplicemente Lui, quell’Uomo…».

 

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