L’OSPITE INCALLITO di Erri De Luca

a cura di Silvia Longo

È una dichiarazione di amore. Il resto, in verità, mi interessa poco.
Io a De Luca lo amo. Una cosa seria. Mica per fare la fila a chiedergli la firma sul suo ultimo libro. Che fosse amore vero me ne sono accorta quando alcune cose che scriveva non mi erano piaciute del tutto. Come se ciò che in principio mi aveva innamorata (la sua capacità di portarti in luogo o situazione, e quella facilità – reale o apparente – a raccontare) mi risultasse di colpo faticoso. Eppure ho continuato ad amarlo.

In bocca ho una stanza di baci rinchiusi
Che fanno il rumore di un alveare.
Poi il corpo si precipita alle labbra
Come alla porta della città per applaudire.

Per la poesia che c’è nella sua prosa. Forse più di quanta non ve ne sia nei suoi versi di “L’ospite incallito”.
Per la ribellione di chi libero si intende per diritto naturale, per il precoce impegno politico e sociale, per l’adesione al GAOS e la militanza in Lotta Continua.
Per l’urgenza di sentirsi parte di un contesto allargato per il non restarsene passivo a fronte della sofferenza altrui. Per il sostegno concreto ai civili, durante la guerra dei Balcani, e alla causa di Emergency.
Per l’amore e il rispetto che porta alla natura, per la sfida dell’alpinismo.
Per la passione a studiare lingue, compresa la nostra, cercando nella Parola le radici dei popoli.
Perchè intanto trova il tempo per scrivere, vivere, amare, cambiare casa, avere un infarto.
Il tutto con pregnanza, senza far finta di essere altro o altrove, e pure con la percezione profonda della sua condizione di ospite. Ospite di un tempo, di un luogo, di cause, di amori e linguaggi. Della stessa poesia. Precario, come la nostra condizione umana richiede.

Sul cartellino la mia faccia e il nome
sotto la scritta EMEGERGENCY, qualifica: guest, ospite.
Va a pennello. Quello sono stato e resto.
Faccio il conto: ospite fisso a casa della rivoluzione (…)
Ospite dell’ebraico antico, di guerre e lingue d’altri,
di qualche giusta causa (…)
Ospite pure nell’amore se già ce n’era un altro
e ce n’è sempre un altro.
Ospite di montagne salite sulla punta delle dita (…)
Ospite con le pagine del tempo di un lettore,
iscritto a niente, ospite incallito, ancora oggi entrando
a casa vuota
da un viaggio, mi scappa di chiedere: «Permesso?»

A questo punto, forse sarebbe meglio che io chiudessi. O che smetteste di leggere, voi. Perché adesso vado sul personale e a chi gliene può fregare.
Io De Luca lo amo perché – forse – mi piace soffrire, scegliere la strada impervia. Perché lui assomiglia a un amante che non ti dice mai ti amo, e glielo devi estorcere, o immaginarlo scritto tra le righe. O drizzare le orecchie e cogliere la sfumatura. Lui non urla mai l’amore, ma te lo fa sentire attraverso la stoffa, se mi intendete: un tormento sottile. E questo, per paradosso, rende il sentimento tangibile. Lo esaspera in ci lo riceve.

Accosto la fronte alla tua, si toccano,
dico: “E’ una frontiera”.
Fronte a fronte: frontiera,
mio scherzo desolato, ci sorridi.
Col naso ci riprovo, tocco il naso,
per una tenerezza da canile:
“E questa è una nasiera”, dico
per risentire casomai
un secondo sorriso, che non c’è.
Poi tu metti la mano sulla mia
e io resto indietro di un respiro.
“E questa è una maniera”, mi dici.
“Di lasciarsi?”, ti chiedo. “Si, così”.

Mi pare che la sua scrittura attinga equilibrio, misura e verità da una consapevolezza profonda di se stesso, del mondo. Dall’esercizio di disciplina e resilienza, le stesse qualità che lo tengono appeso a una parete rocciosa, quando scala, quel genere di controllo del sé che filtra il necessario di ogni emozione, non permettendo loro di erompere con troppa furia e di far danno. Che trattiene di ogni questione solo il nocciolo.

Nonostante il riserbo a dire, non riesci a restarne fuori. Dalla sua scrittura. La reticenza che innamora. Anche se lui minimizza, come a dire che insomma, è quasi un fatto di nonchalance.

Fai come il lanciatore di coltelli, che tira intorno al corpo.
Scrivi di amore senza nominarlo, la precisione sta
nell’evitare.
Distràiti dal vocabolo solenne, già abbuffato,
punta al bordo, costeggia,
il lanciatore di coltelli tocca da lontano,
l’errore è di raggiungere il bersaglio, la grazia è di
mancarlo.