Ma capire, sarà davvero la forma più alta di conoscenza?

Ipotizziamo un salone di bellezza, una manicure, una parruccherìa.
Dentro non ci sono riviste più o meno patinate da sfogliare, non ci sono signorini o ferragni che tengono.
Medie e piccole case editrici, col supporto dello Stato e l’alto patrocinio di, riforniscono le discussioni all’interno del salone.
Ecco, se in Italia nel 2018 il dibattito culturale partisse dal basso una signora ultracinquantenne con i pensieri sotto il casco direbbe che: “quella lì è tocca”, e che “quella lì con la testa non deve stare mica tanto bene”.
Quella lì è la protagonista di “Maestoso è l’abbandono”, di Sara Gamberini (candidato ad essere il migliore esordio italiano dell’ultimo anno).
Il romanzo, scritto in prima persona, è incardinato quasi esclusivamente sul personaggio della protagonista, una donna con la psiche incatenata dal suo analista freudiano, da una madre incostante e da un amore immaginato.
Incostante, imprevedibile, folle, il personaggio della Gamberini è un accumulo di aggettivi che potrebbero essere quasi tutti calzanti se presi da un manuale di psicoanalisi (inevitabile l’accostamento a un moderno Zeno Cosini, succube del proprio analista).
L’umore della protagonista è uno yo yo di plastica rossa, sempre pronto ad innamorarsi, a scappare, a rimanere deluso, ma soprattutto ad essere costantemente impaurito. Dalla vita, dall’amore, dalla famiglia, dai vicini (“Mi mettevo sempre nella condizione di essere salvata per vedere cosa sarebbe accaduto”).

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Ma la forza della scrittura della Gamberini ha un’energia insolita, incorporea, sicuramente lirica.
I riferimenti alla poesia sono numerosi: dalla Gualtieri delle prime pagine fino alla protagonista che in alcuni aspetti assomiglia vagamente (o almeno così l’ho immaginata) alla migliore poetessa italiana del ‘900 (no, non quella a cui state pensando), e non ci stupiremmo di scoprire che l’autrice ne nasconde un pugno nel cassetto.
Un lirismo che ha una sua levità, ma che ti impedisce anche di distrarti (o meglio sì, ma non tantissimo): l’autrice cambia spesso verso nel giro di due frasi: un fraseggiare che richiede impegno, ma che si salva con l’autoironia, la leggerezza.
Rimanendo in poesia, potremmo sostenere che la scrittura dell’autrice è un ossimoro in equilibrio, costantemente sospeso.
Lo stile è denso, ma non appesantisce, malgrado durante le duecento pagine di fatto non succeda nulla (o poco, prevalentemente nelle ultime decine).
La Gamberini accatasta il suo fraseggiare, poi dà fuoco senza che chi legga abbia modo di presagire il falò di parole (“Ma capire, sarà davvero la forma più alta di conoscenza?)
Questi repentini movimenti sono assestati grazie anche ad uno stile che si conclude spesso con l’incedere di un aforisma (“Ho sempre desiderato non avere bisogno di nessuno, davvero e non per orgoglio”).
Le sue frasi sono sentenze provvisorie, aforismi che piacerebbero al primo Sorrentino (“Ma ci sarà davvero qualcosa da capire nelle persone?”).
Curiosi molto dell’autrice, non solo di sfogliare le sue poesie nel cassetto, ma anche di leggere altro.

All’università mi interessava stupire i professori anche se mi capitava di rado di avere un guizzo di genio. Al primo esame rifiutai un diciannove e passai il pomeriggio sdraiata a letto a chiedermi come mai non si capisse che ero una persona straordinaria, fuori dal coro. Eppure al mondo, mi ripetevo, continuano a piacere le ragazze garbate, le poesie modeste. Il dottor Lisi mi invitava a fare i conti con la mia mediocrità, che è poi la mediocrità di tutti, sottolineava. A me interessava essere stupenda.
Scovavo simboli fallici ovunque
[…]

– Sara Gamberini, Maestoso è l’abbandono, Hacca ed. 2018 – 

a cura di Giuseppe Rizza

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