Mai cercare l’asino sul quale sei seduto

recensione a cura di Giuseppe Rizza

A volte si aprono squarci improvvisi che possono essere lame in un quadro di Fontana, o se qualcuno preferisce arcobaleni ingiustificati dopo una pioggia pomeridiana, e così in una notte inodore tenendo fra le dita il libro di un poeta lituano leggi un verso di cruda bellezza, e la mattina dopo, eretto e in un’aula, la rileggi, ed è proprio vero, non è stata un’apparizione anzi, più te lo ripeti fra la lingua e i denti, quello ti sembra davvero un verso perfetto:

                                         azzurrano attraverso il melo i fiocchi serali della neve

che nell’originale, mi si fa notare, hanno una musicalità diversa, come un senso ulteriore:

                                              melsvuoja pro obeli vakaro snaiges

e così ti arrendi davanti all’evidente semplicità sofisticata dei versi di Donaldas Kajokas, tradotti da Jurga Po Alessi e e Davide Ferrari, pubblicati di Effigie col titolo All’asinello sordo ( citazione del verso di Orazio: “Surdo asello fabellam narrare”).

La poesia di Kajokas sembra apparentemente servirsi di una semplicità a tratti disarmante, quasi di facile lettura, e quest’ultima diventa presto di felice lettura quando in realtà si viene a comprendere che la semplicità è solo di forma, perché nasconde una stratificazione di significato, simile a una parabola orientale, con influenze zen:

Taceva – taceva taceva taceva
Ma andava e andava ma andava e andava
Con perseveranza e serietà attorno al suo capanno
Poi zacchete un mattino – giunse al mare
Del silenzio – s’immerse – scoppiò in una risata

Se i versi del poeta lituano sembrano immersi nella realtà, le incursioni verso la metà invisibile del cielo sono invece numerose, gli specchi sono convessi:

staccatosi dalla ruota della giostra
un cavallino gira per il parco tutta la notte

accade che la stessa notte
nella nebbia del parco avanza la solitudine

– e poi?
– perché, non ti basta: la nebbia

La notte la solitudine e un cavallino

In Kajokas la natura è al servizio di altro, di sensi non apparenti, come se lo sguardo del lettore venisse rapito da un panorama mozzafiato, ma più ci si avvicina più ci si accorge di quanti tornanti bisogna affrontare, in una strada che ai margini riesce pure a premiarti mostrando minuti fiori di campo.

La sua è una poesia orale, impregnata di spiritualità, quella del quotidiano che si traveste di simboli per nascondere significati, ricca di immagini cariche di un’immediatezza nascosta, che fa sua la lezione della grazia degli haiku e di una sensibilità da religione dell’estremo oriente, una poesia anche citazionista, che indaga la realtà circostante per scrutare la propria anima.

É insomma, quella di Kajokas, una poesia senza certezze. Cosa chiedere di meglio ad un poeta?

La solitudine è bella/ finché non diventa/ un po’/più profonda/di una fossetta tiepida/sul cuscino