Mandate a dire all’imperatore

a cura di Silvia Longo


Lo leggo, e poi scrivo a Pierluigi Cappello

A chi si domanda cosa sia (diventata) la poesia nel corso del tempo, a chi si interroga sulla sua reale utilità e sul valore della stessa, consiglio i versi di Pierluigi Cappello.

Dirgli magari: ho sentito qualcosa, che va oltre la musica, il ritmo e le suggestioni, forte e chiaro e molto simile a un moto naturale di sentimento, una percezione di reciprocità di mondi paralleli.
Ho amato la forma, sobria sempre e mai dimessa e il chiamare le cose con il loro nome, trasparenza cruda, mai crudele del raccontare, il procedere per illuminazioni, in cordata di immagini che trovano riscontro nei sentimenti.
Quando scrivi di un acero fuori casa, e della sua ombra “premuta metà sulla strada metà sul giardino”. E, nella chiusa, “vivere è un minuscolo posto dove stare in giardino”. Quando dici “le briciole del dopopranzo”, “lo stare di tutti i giorni nelle cose da fare”. E ogni oggetto, ogni elemento della natura, ogni gesto quotidiano è interiorizzato a liturgia, spesso faticosa, a tratti splendida di stupore, del “restare”. Parte di un paesaggio interiore in cui ogni cosa – dall’esterno – si specchia e diviene corrispettivo simbolico.
Il “restare” elegante nella vita, con un eroismo necessario e sommesso, constatazione, consapevolezza del non poter stare diversamente.
E lo stare con eleganza nei versi, senza sbilanciamenti verso il classico o il moderno.
La generosità del narrare, perché di narrazione si tratta, la vita. E non di una sola persona, ma quella di un piccolo popolo e della sua epoca, di “uomini e donne scampati al tiro della storia”.
L’ammissione educatissima – nessuna proclamazione né volontà di imporsi – della fragilità umana e dell’esistere su questa terra. 
La potenza della parola (che è un luogo fisico, oltre che dell’anima, chiostro in cui l’apprendistato si traduce in scrittura), della carta e della matita:

“Tu sei di qui, di questo mondo
l’ombra delle tue dita si stampa
sul candido del foglio, la punta della penna;
stai dentro le parole, stai ogni giorno dentro le parole
nella forma delle cose mentre le si osserva
e ogni forma diventa una forma di tristezza
il tuo lungo ingresso alla cenere.”

La cesura tra i “prima” e i “dopo”, il riconoscere le cose, ma saperle diverse, perché diverso è lo sguardo interiore, l’ autocoscienza che si fa luce e filtro alla luce:

“Ci si risveglia un giorno e le cose sembrano le stesse
mentre invece dietro a noi si è aperto un vuoto
dopo che tutto è stato fatto per trattenere la vita
in mezzo a un panorama di pietre sparse e tegole rotte.
Allora uno mette il dentifricio sullo spazzolino
mescola lo zucchero al caffè
con l’attenzione che aveva da scolaro
quando ritagliava sulla carta
file di bambini che si tengono per mano,
piccoli pesci che baciano l’aria.”

La delicatezza nel ricordare l’infanzia, spensierata nonostante tutto, che ti faceva giocare sul greto di un fiume e alitare calore nell’inverno, la Terra che ti ha visto bambino, il perpetuarsi in quei luoghi di ritmi e consuetudini. E volti di persone, le loro azioni quotidiane, i loro nomi, perché i nomi sono importanti, anche a questo servono, a tramandare e non perdere – labile – la memoria:

“Dicevate domani, dicevate questo è il figlio
E con il silenzio del fischio della bufera
I vostri nomi sono andati via
Voi che siete stati popolo e ombra
Remissione e forza
Il tuo nome, papà (…)
E se c’è un’uscita, papà, anche se non posso dire domani,
la sua luce sulla soglia
è questo stare dei tuoi occhi dentro i miei
questo pensarvi vivi, liberi e scalzi
le tasche piene di sassi, la memoria di voi
che trema in noi.”

Io ti ho letto così. E se mai tu dovessi leggere me, mi sei stato tepore.