Narciso non è Narciso

Narciso è il mito classico più frainteso. Lo comprese Oscar Wilde, quando in un suo racconto narra che, interrogato su Narciso, sulle sue sembianze, lo specchio d’acqua su cui egli si rifletteva risponde: “Non so. Quando si sdraiava sulla mia riva, nei suoi occhi io vedevo riflessa la mia propria bellezza”.

Nella carne di Narciso, nei suoi occhi, penetra un movimento d’Altro, un movimento inumano. E mi viene in mente Petronio che, in un frammento amato da Kavafis, delle peregrinazioni di Ulisse scriveva “te noverit ultimus Ister”, ti conoscerà il lontano Istro, cioè il fiume, l’inumano, è il soggetto dello sguardo.

Narciso osserva nell’acqua i contorni del proprio volto, le mura in cui Altro fissa la sua identità, e non la tollera, Narciso, questa fissità. Lacrimis turbavit aquas, scrive Ovidio, “con le lacrime intorbidiva l’acqua, e nello specchio agitato si oscurava la forma riflessa”.

Io vivo di stupor-stupro. Passo la mano sull’acqua delle parole e, Narciso, intorbidisco la mia immagine, la cancello, la ricompongo nell’immagine nera e incomunicabile di Eco, della Madonna. Io vivo di stupor-stupro, cioè io amo. Narciso non è innamorato della sua immagine ma della distruzione della sua immagine.