Nature morte e vanità di Alfonso Petrosino

INTERNO FAMILIARE

Squilla il telefono e nessuno va.
Gli squilli fanno fremere le stanze.
Non possono essere che creditori
o qualcuno che fa le condoglianze.

Sul tavolo in cucina c’è del cibo,
dei piatti che nessuno mangerà.
Mi tasto lo sfenoide e la mandibola
e poi con le falangi esploro i fori

in cui un tempo c’erano i miei occhi
e tra le costole i polmoni e il cuore.
Mia sorella sparisce nell’acquaio,

mio padre a letto nel televisore.
Gli squilli si trasformano in rintocchi.
Il corridoio è buio e anch’io scompaio.

*

INTERNO SOTTERRANEO

In così tanta oscurità le sbarre
delle saracinesche dei garage
fanno pensare a tele di Soulages.
Le cantine continuano ad attrarre

ragazzi inquieti e vandali: per terra
accanto ai vetri rotti un estintore 
scarico. Un ragno è sull’interruttore
della luce. L’umidità mi afferra

al collo e nonostante ciò non esco.
C’è un’automobile bruciata: in quella
tenebra sembra un teschio gigantesco:

divaricate cavità nasali
il marchio e la calandra, la mascella
il paraurti e le orbite i fanali.

*

INTERNO ESTIVO; POI ETERNO

Controra: un alito di maestrale
entra e la porta cigola sul perno.
La luce nella stanza è tanta e tale
da rendere invisibile l’interno.

È questa sovraesposizione che ubica
quel luogo reale in una pura idea
e accentuandone la forma cubica
la riconduce all’anima euclidea.

È la parete perpendicolare
al pavimento, al tavolo e al soffitto.
È tutto eterno, è tutto provvisorio.

Una finestra inizia a oscillare;
a seconda dell’angolo descritto
può trasformarsi in uno specchio ustorio.

Alfonso Petrosino, da Nature morte e vanità (Vydia Editore 2020)
Immagine: opera di Matteo Massagrande