[Orfeo, Euridice] “Amanti, siete amanti ancora”? (Lisa Orlando)

“… E l’abbraccio, per voi, è una promessa
quasi d’eternità. Eppure, dopo lo sgomento
dei primi sguardi, e lo struggersi alla finestra
e la prima passeggiata fianco a fianco,
una volta per il giardino,
amanti, siete amanti ancora? …”

(R.M. Rilke, Elegie duinesi, seconda elegia, vv. 59-63)

lisao
 

(Io e te: uno strano deposito di figure interrotte, un intreccio d’incandescenti ferite tra pietra e pietra. Un giorno vidi il tuo sfocato volto riflesso in uno specchio; tu, in un sol colpo d’occhio vedesti il mio.)

Quello, fu l’istante in cui chiedemmo di nascere? In vesti tragiche. Dai corpi esangui, dai cuori tormentati, gli amanti, fluenti l’un l’altro nell’elementare richiesta d’esistere; e frammenti di bocche spinte in avanti; e suoni a colpire gli orecchi nel lancio dei nomi. Chi tirò il cordino emettendo la gracile musica d’un valzer? – chi iniziò a danzare per primo? – chi giunse, sul fermento d’immaginazioni, dinanzi al sesso dell’altro?

Dal grado zero delle emozioni, occorreva una matassa di fili ad alta tensione per far scoppiare le carni, e baciarci – il bacio – la deflagrazione della tua, mia bocca, nell’irremovibile intento d’ardere… ardere… ardere… bruciando (pur) il tempo nel suo ordine.

Cos’è mancato… perché i corpi si trasformassero in luce d’aurora? – in estatico verticalismo – per il massimo sapore di te e di me. Avresti dovuto dirmi (non l’hai detto!): “Non metterti in armi contro di me. Disarmati!” Avrei potuto sostare, nuda, in prossimità d’una tomba aperta, avrei potuto restare sospesa nel potenziale stato azzerante per la purezza d’una concavità nella quale non ero mai stata: la tua. E qui amarti, come volo lieve d’un gabbiano sopra il mare fermo, destituendo ogni forma di potere.

Ma, alla curva concava, d’un tratto, un inaspettato moto convesso, una fuga continua (una ritrazione? un ritorno a te? un rientro nella notte perché in essa potessi compierti?) Cos’era accaduto? La consistenza del tuo corpo nel gesto ostinato di una sporgenza che ti poneva nella forma del convesso. Cos’era accaduto? Avevo forse irritato troppo l’acqua della tua conca?
Al fine, per me: il vuoto. Sopportarlo? Rinunciare alla potenza in cui s’apre il giorno? Calarmi, ancora, in un’oscurità come neve sospesa tra la notte e le strade.
Il rischio totale?
Il buio definitivo!

Si dice che i fiori non si apriranno se ci si aspetta che s’aprano, ciò avverrà da sé, quando il tempo sia maturo…
Si dice che lei sia stata impaziente quanto Orfeo che si voltò a guardare Euridice compiendo il gesto proibito. Ma dopo tanta notte, schizza sangue negli occhi; l’impulso all’ora del sole è invincibile. Tra sgomento e orrore, dopo tanta notte non v’è corpo che possa affrontare viaggio di sforzo e di pazienza. L’oscurità non può sopportare altra oscurità, s’impone la vita che necessita d’accendersi scaglia a scaglia.

(L’ impulso all’esistere è più forte della morte. Per questo Orfeo guardò Euridice? Ché s’uccide pur l’amore per n o n voler morire…)

Nei respiri appiattiti da albe che fatichino a nascere quanto si può resistere all’eclissi dell’altro?
La necessità di luce nelle pupille non ha pietà dell’assenza di chi si ama.
E così, ho guardato.
Il tuo volto.
Chiedendoti: “Fammi esistere!”.
Come Orfeo.
Negli occhi duri e secchi, esigendo il tuo sguardo su me, t’ho messo a morte, nell’amore infedele al suo principio.

Lei lo sa. Aspettarti nel viaggio che si compisse, avrebbe dovuto; fino alla soglia degli inferi: che il convesso tornasse nel concavo.
Ma t’ha guardato. Nel punto esatto tra ombra e luce. Formulando l’addio detto in anticipo. In un istante, tragico istante, della sua vita.

 

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