PERCHÉ GIUNGANO

Una candela, e più nulla. Quel lume fievole
meglio s’addice, più fascinoso sarà
quando le Ombre giungano, Ombre di Voluttà.

Una candela. Via, stasera, dalla camera
troppe luci. Mi sia dato fantasticare,
perso nella malia suggestiva del sogno,
abbandonato al sogno entro quel lume fievole,
perché le Ombre giungano, Ombre di Voluttà.

Costantino Kavafis
(traduzione di Filippo Maria Pontani)

Quando compose questa poesia, forse Kavafis non aveva intenzione di toccare il nodo più sfuggente del fare arte o poesia: il rapporto con la morte. Forse voleva scrivere solo un Anthem cupo, un inno desolato alla propria autodistruzione. Pure, il rapporto con la morte era per lui troppo centrale, la morte gli circolava nelle vene. Aveva troppa familiarità con le ombre, si muoveva fra l’Alessandria antica e quella dei suoi giorni come se non vi fossero di mezzo secoli di storia, come se i ragazzi che fumavano nelle stamberghe appartenessero all’età ellenistica e i giovani eroi che morivano per Alessandro all’età odierna. Il museo delle cere per lui è sempre tutt’uno con la vita, la storia è una meravigliosa sincronia perché non è la Storia, ma la somma delle storie, l’accumulo elefantiaco delle storie in un deposito simile alla biblioteca di Alessandria. Kavafis è l’archivista di un tesoro che appartiene a tutti, ma che solo lui sente. Sembra davvero che le senta, le voci del passato, che sia un medium in contatto coi fantasmi, che senta la loro trepidazione, la loro sofferenza, il loro andare incontro al destino. Il rapporto con la morte tocca le radici stesse del poetare: lo troviamo nel mito fondatore della poesia, il mito di Orfeo. Cos’è la poesia se non quella volontà di riportare in vita Euridice -quella fede in una forza delle parole che porti la poesia oltre l’umano limite delle parole, che porti il canto del poeta a farsi cosa, ad essere Euridice soltanto per aver nominato Euridice? La poesia è vita oltre la vita, è un continuo richiamar ombre -per cristallizzarle, per sottrarle al tempo, per renderle concrete e inattingibili come tutto ciò che non muta. La poesia è un richiamar ombre che non sono più in vita; o un trasformare in ombre creature che sono ancora piene di vita, d’entusiasmo, di dolore; e fissarle, queste creature, trasformare un loro istante in un’eternità per poterlo poi cantare. E se nel primo caso la poesia fa il lavoro di Orfeo, nel secondo fa il lavoro della morte: schiaccia una vita ancora viva e la inchioda a un suo momento, la trasforma in una vita che si compie in quell’unico momento, e la consegna a una morte metafisica, solo per permettere al poeta di poi cantarla, di poi tirarla fuori dall’Ade. Aveva ragione Cioran, quando scriveva nel Sommario di decomposizione che la personalità umana del poeta è la negazione della vita.

Ma il canto non appartiene solo alla poesia. La poesia anzi lo mutua dalla più immateriale delle arti: la musica.

La musica è fuggevole, è un’ombra – e nello stesso tempo è un fatto. La musica, nel momento in cui viene eseguita, accade davanti a noi. Eppure, nel momento stesso in cui esiste, il suono passa e si sfa. E’ presente e sfuggente, come le persone care che non ci sono più: è emozionante e impalpabile, rivive per un istante, ma soprattutto rivive nella memoria. Per questo la musica è così vicina all’idea della morte. E’, se vogliamo, un’immagine di Dio, presente ma imperscrutabile, immanente nella sua creazione e trascendente lì nel suo cielo.

La parola non ha questa forza. E la poesia, fin dai primordi, si è agganciata alla musica per superare i limiti della parola. Omero, l’aedo, cantava. Per lui, che non usava la scrittura, la parola era un puro suono, che passa e si sfa: la parola sfuggente, è l’epiteto formulare che ricorre nei suoi poemi. Omero doveva imparare a memoria, e con mille artifici rievocarle, tutte le parole dei suoi poemi… La scrittura ha spezzato quest’incanto, ha dato un taglio al mistero in cui la parola era assoluta e sfuggente come la musica. La poesia si è resa indipendente dalla musica. Non è un caso che la musica, nella cultura europea, è tornata a legarsi alla poesia coi trovatori medioevali, in un momento, cioè, di crisi della civiltà della scrittura.