Pier Maria Galli, di Lisa Orlando

Pier Maria Galli
[è necessario che la poesia divenga un sintomo della realtà]
di Lisa Orlando

Ultimamente ho smesso di sfogliar pagine di romanzi, saggi, biografie, leggo solo poesia; mi rifugio in essa, perché quando l’intelligenza non domina i sensi è davvero sublime strisciare sotto qualche oscura lirica di Stéphane Mallarmé o di John Donne, e sentire sprigionare suoni, liberare profumi, distillare aromi.
In quest’ultimo periodo, sto leggendo Pier Maria Galli, autore di diverse raccolte di poesie (Di un tu e quasi noi, Ed. del Leone, 2005; Ottanta piccoli studi da lavandino, Ed. I figli belli, 2005; Prima che sia autoritratto, Editrice Zona, 2008; Gli uomini belli ed altri cortometraggi, Clepsydra Edition, 2009); è da alcune settimane che lo leggo, forse per quell’empatia segreta che serbiamo verso coloro che sembrano somigliarci, forse per quell’umore riflessivo e meditativo che segue subito dopo aver letto ogni sua poesia… di giorno, di notte, mentre prepari un caffè, mentre ascolti musica, mentre passeggi, immaginandoti in una via parigina…
Sono inconfutabilmente belli i versi di questo poeta, e lo sono innanzitutto perché portano la luce di un’intelligenza e di una complessità della sensibilità, nonché di uno sguardo davvero fuori dal comune. Anche se (a esser più precisi) la prima qualità con la quale avvince la sua poesia è qualcosa di molto più immediato e puro: la levità del suono che possiede ogni parola fino alla rarefazione:

sfere esitate i tuoi seni / per ricominciarti ogni volta / daccapo […]
o
riprenderti. / un primo piano / poi due poi tre. /e ancora a perdifiato, / a pellicola
stremata […]
o ancora,
la durata / di un foglio bianchissimo / dopo le dita, un male preciso / da non leggersi nulla, / una semplice ferita nell’aria

E così, scivoliamo dentro le sue frasi, con una naturalezza estrema, con una attraente mancanza di artificio, lasciandoci sollecitare i nervi dell’udito, fino quasi a perderci in quel suono; e osservando lentamente la sequenza delle figure che si disegnano come passi di danza ritagliati nella continuità di una coreografia di movenze misurate.
Ecco, nei versi di Pier Maria Galli non siamo solo di fronte a belle frasi, ciò che più conta è il sentirci penetrati nella sua stessa modalità di sguardo e di pensiero; siamo nel suo mondo, ogni altro punto di vista è risolutamente reciso:

5 semplici righe perché è un quasi sera, ed è inverno. / perché oggi potevo potarti le rose / con l’equilibrio di un bambino e non l’ho fatto. / perché è di un’irresponsabile bellezza / la sciagura di certe felicità inconsolabili.
O
non s’era detto che tacere / è una distanza lavorata, e / non c’è prodigio se via da te / senti il mio viso / che cade sul tuo.

Ha una capacità di incantarci rapinosamente, di avvolgerci nel suo accadere interiore ed esteriore; è questa la qualità preminente; è così che esercita il suo fascino su di noi: condensando la sua essenza in pochissime frasi. Ma è un’essenza che, mentre opera in noi, si separa anche in strani contrasti, tanto da infonderci infiniti filamenti di sentimenti, fino a un fatale senso di impotenza, fino a un ineffabile risentimento; un raggelo! Ci viene da chiederci, dunque, cosa componga questa essenza, quali elementi confluiscano per incidere in modo così profondo e complesso.
E’ che nelle poesie di Pier Maria Galli si avverte inesorabilmente una mancanza, un’assenza – che non è perdita del senso dei contorni della realtà, anzi, con fedeltà e precisione vengono resi i dettagli, le linee, gli spigoli vivi: è dono del suo stile, della sua peculiare disposizione e costruzione: di mani, seni, e rose, labbra, sigarette, finestre, sedie; agli ordini della sua voce, noi vediamo una tenda che palpita “tra i vetri socchiusi di una stanza”, “le rose burrascose a vento cessato”, gli “uccelli di mare su un tavolo d’inverno”, “il giardino quando era l’inizio di un bosco”; tutto è sempre esposto alla vista. La sua è una mente singolarmente audace, che ama sempre rapportarsi alle cose reali e si sforza di esprimere ogni sensazione esattamente nel modo in cui si ripercuote sui suoi sensi. Forse esattamente in questo si manifesta tutta la sua grandezza e il suo limite. Identifica un dettaglio e lo fissa fino a che non lo ha ridotto nelle poche frasi che ne esprimono la peculiarità:

la donna che proiettava / frasi d’amore sulle bocche dei bambini conclusi, / mentre l’impiegato alle tue felicità terrene / affiggeva manifesti di tristi spogliarelliste / sui muri riposanti che fiancheggiavano la scena.

ma non vede (o non è interessato a vedere) il contesto, il tutto. In tal modo la descrizione possiede sempre un’intensità momentanea, ma raramente riesce a rendere l’aspetto generale delle cose. Lui ha bisogno di guardare sì all’esterno, ma esclusivamente dal proprio angolo visuale, dal proprio centro, rifugiandosi nella propria solitudine, e dunque nel suo eremo inviolabile.
Forse per questo, sin dalla prima lettura, sentiamo educare la nostra mente su di un punto che diviene sempre più tristemente percettibile via via che i versi procedono: ovvero quell’idea di ineluttabile irrealizzabilità, di impossibilità di contatto con l’altro:

questo mai toccarci / nel luogo che si spoglia, / magrissimo dire di giardini / sino alle foglie per la foglia, / e nulla c’è che insiste più / di quel vento che solo / scriviamo.

E,
le nostre dita lentamente, e le mani in una struttura / complessa di accelerate solitudini, la concretezza / di una probabilità su nessuna probabilità, il tema / pallidissimo delle braccia.

Tuttavia, il gesto della scrittura in Pier Maria Galli, esattamente per quell’alterazione che produce nella mente e che la fa sostare, ampliandone gli sguardi, le visioni, si fa (forte) resistenza all’oblio – “scrivere è la lentezza (minuscola) di un ginocchio che si piega per falciare il tuo piede nudo insieme all’erba antica” – , strumento per lasciar sgorgare visioni dalla roccia della mente come fontane di acqua dolce, che restano nel tempo, e elenchi di cose da amare (dunque da sottrarre alla morte) come quella “bocca tra molteplici labbra & l’O di meraviglia a difesa dell’orizzonte”, perché nessun evento è così piccolo da lasciarselo scivolare tra le dita. Il poeta usa le parole come agenti attivi di una poesia e così conferisce vita (!), tridimensionalità al mondo delle immagini sulla carta:

cielo coperto, scrisse / e disegnò delle persiane, / poi disse alla donna: / “vedi? immaginiamo che piova / e che sotto il mio disegno / esista davvero una finestra. /e ora l’apriamo.

Alla fine, costruita in modo intermittente, irregolare, riusciamo a scorgere, nel lento dipanarsi delle immagini di quest’erratico e profondo osservatore, anche il ritratto di una (flebile) speranza che ci “de-porta pallidi in quel tempo d’amanti che saremo, inseparabilmente sereni, come le mani sul cielo quando non si ha nulla da scrivere”. Col la bellezza del suo stile, la rara qualità di immaginazione, e l’audacia nel forzare continuamente il suo strumento per sperimentare sempre nuovi punti di vista (ché la realtà è sempre invariabilmente più ricca di noi che cerchiamo di esprimerla), credo che Pier Maria Galli ci abbia fatti passare al di là della portata della personalità in un mondo che non è totalmente il mondo della poesia. E’ più sopra. E’ in quel cielo, forse, quando nulla più si ha da scrivere.
 

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