Frammenti di zone soggette a videosorveglianza: azzeramento dell’io e prospettiva post-umana nella poesia di Mauro Barbetti.

a cura di Manuel Omar Triscari e Angela Anconetani Lioveri

È un percorso, quello del poeta osimano Mauro Barbetti, che parte nel 2017 dai Versi laici (2010-2016) per Arcipelago Itaca, passando per Retro schermo (Tempra, 2020) e per Dismettersi (La valle del tempo, 2022) fino ai Frammenti di zone soggette a videosorveglianza (Zona, 2022) – silloge, quest’ultima, vincitrice del Premio Pagliarani 2020 all’interno della sezione inediti -, descrivendo una parabola ascendente in grado di collocare l’autore nel virtuoso equilibrio tra poesia lirica e poesia di ricerca. Nei Frammenti di Barbetti l’io si azzera, in contrasto con l’iper-esposizione dell’io lirico ancora oggi parte di certa poesia, o, come sostiene Cetta Petrollo nella sua nota introduttiva all’opera, diviene un “io delocalizzato che si fa altro da sé”. L’autore, seppur non si annulli (non diventa mai un anti-autore), assomiglia più a un lucido occhio esterno che guarda la realtà in modo oggettivo e privo di sentire, che a un io-testimone di una propria vita interiore e portatore di istanze individuali. La prospettiva sul mondo diventa dunque obliqua, superando qualsiasi forma di antropocentrismo, facendo dell’essere umano un elemento tra gli altri, nonché il più transitorio e il meno necessario. La sua presenza-assenza diventa, gradualmente, inesistenza:

 

(telecamera 6 Via Gereschi)

 

S’apre un portone

Nessuno che ne esca

Fissare l’in-

esistenza

 

Quella ritratta nella raccolta è una figura umana che non parla, o che viene ammutolita dalle telecamere che ne annotano solo movenze e spostamenti. In telecamera 16 Via S. Francesco le persone vengono persino identificate con le lettere dell’alfabeto, come fosse incognite o equazioni (“Dal tabacchino/A racconta a B di C”). Ne risulta un generale capovolgimento degli usuali ruoli di uomo e macchina: l’essere umano non è più l’homo loquens che, secondo l’assioma “parlo dunque sono”, era il principale detentore della lingua e della parola. L’umanità di questa raccolta di certo agisce (le persone s’incontrano, si separano, camminano, portano fuori la spazzatura, fanno festa), ma nessuna di queste sue attività sembra più importante di un’auto in corsa o di una lucertola che risale un muro. Lidia Riviello ha parlato a riguardo, nella nota di lettura posta a fine libro, di una sorta di “capovolgimento della specie” e di una “lingua della videosorveglianza”: “specie che guarda mentre non parla, che viene guardata mentre allestisce la sua scena, la sua scrittura dentro e fuori la scena composta da piazze, vuoti, centri, spazi, condomini, angoli, residenze. (…) Si sfinisce e si installa una nuova lingua con questa poesia: la lingua della video-sorveglianza, lingua che distrae dall’assenza e all’assenza torna come linguaggio”, in totale controtendenza rispetto alla pienezza del linguaggio poetico corrente.

 

Linguaggio e forma infatti, caratterizzati da uno stile aggettivale (“attori virtuali per strada/dentro una scena muta”, da telecamera 3 Via del Carmine; “Passa una bici arrugginita/un vecchio manubrio reclinato”, da telecamera 10 Via dei Mille) e da una lingua metallica che ricorre ai lessici tecnico-scientifici della matematica, della medicina e della fisica (“transitano infinite/traiettorie parallele/Se ne stanno non-euclidei/monadici-ognuno scavato/dentro un proprio piano/inclinato”, da telecamera 25 Piazza Garibaldi; “cromosoma X – Y/comunitario o non/senza anima o con/univoco binario/innato ereditario/organico inorganico/noumenico o fenomenico”, da Mattutino), ma anche della cronaca giornalistica (“Non importa/se si formino/code a tratti”, da telecamera 20 Via del Brennero), si accomodano bene al contenuto tutto post-moderno, quasi tendente al post-umanistico, senza però mai negare la necessità della comunicabilità col lettore. In queste poesie-schegge è evidente dunque un generale rifiuto tanto delle eccessive semplicità e schiettezza proprie della poesia più “popolare”, quanto degli esagerati abbellimenti retorici e artificiosi di un poetare del solo sentire o, ancora, dell’oscurità programmatica di parte della poesia di ricerca.

 

Inusuale è l’uso della punteggiatura: le parentesi vengono usate per formulare ipotesi o specificare aggiungendo ulteriori dati (“se non danno la schiena”; “è probabile lo faccia”; “forse consensuale”, “2° piano – porta a destra”; “h. 18:39”), non esistono punti fermi ma solo due punti e trattini, anche utilizzati per isolare i prefissi dal tema così da dare risalto fonico ai suoni ripetuti (“in-esistenza”; “de-compone”, “dis-articolati/dis-abilita/dis-animato/dis-abita/dis-anima”). Compaiono pure, in forma di simil-elenco, liste nominali, come nel caso di “soste ai semafori/filari antropici nei viali/e folle d’alberi a passare/sguardi marginali banali” (Mattutino) o di “siano esse formiche/linee elettriche/uccelli in migrazione/il traffico seriale/serale/o esseri umani” (telecamera 29 Via Gandhi – Centro Commerciale) e istruzioni o ordini espressi col verbo all’infinito (“verificare”, “controllare”, “leggere e occultare”). Ampia attenzione viene però soprattutto riservata al suono, tramite il costante ricorso a rime interne, consonanze, paronomasie e allitterazioni (ne sono esempi “Vecchio volto/vòlto”, dal sapore dantesco, “sale al sole”, “Taciuta e tacitata”, “mutate in mute”). Frequenti sono anche i giochi di parole realizzati tenendo conto di composti e particelle preverbali (pre-vista/pre-senza; separ-azione; de-compone; es-pelle/es-pianto/es-posizione; inter-calare/inter-mittente). È dunque una poesia, quella di Barbetti, che di certo non rispetta una metrica, sebbene segua un certo canto e faccia della musica, se non un obiettivo ultimo (come detterebbe la tradizione lirica), almeno una presenza costante, quasi inconscia ma ben manifesta nelle figure di suono, nei giochi di parole e nelle frequenti catene di fonemi simili:

 

(telecamera 23 Parcheggio Via di Pratale)

 

Ogni mattina

non fa che sorgere

su oggetti dis-

articolati: dentro la rastrelliera dis-

abilita un cerchione di bici dis-

animato agganciato alla catena

un po’ più in là dis-

abita un carrello della spesa

lasciato al bisogno o alla dis-

amina altrui

  

Frammenti di zone soggette a videosorveglianza è un libro in cui la poesia è più dell’intelletto che del sentimento. Il sentire c’è, ma è moderatamente accennato, raffinatamente da evincere tra le righe, così da far emergere una delicatezza nel “dire e non-dire” che si specchia in uno stile accurato dove mai nulla è di troppo. Anche la scrittura infatti procede per sottrazione, privilegiando un linguaggio razionale e scientifico e facendo trapelare un accorto labor limae. Sottratte al verso sono le parole in più, alla scena le immagini che escono dalla telecamera. La lente di osservazione è infatti quella di 612 apparecchiature per la videosorveglianza installate nella città di Pisa di cui l’autore ha visionato centinaia di inquadrature attraverso Google Maps. Pisa è un luogo scelto per mera casualità, interscambiabile con una qualsiasi altra città occidentale, pretesto per descrivere un tempo tutto diverso da quello umano. Un artificio letterario o una licenza poetica, quella degli schermi da cui vedere senza essere visti, che fa sì che tale raccolta si giochi tutta, citando il filosofo russo Pavel Florenskij, su una sorta di “estetica dello sguardo”. Uno sguardo rivolto ad un mondo in cui la cultura “contemplativo-creativa” ha lasciato totalmente spazio a quella “meccanica”:

 

(telecamera 43 Lungarno Fibonacci)

 

Sempre ponte

sempre fiume

cambia la luce

le ombre

cambiano

stagioni a condensare

– più piene meno piene –

(Fossi umano

parlerei di Cezanne

del suo occhio fisso

sul Mont Sainte Victoire)

 

All’interno della contrapposizione denotativo-connotativo, la poesia di Mauro Barbetti propende evidentemente per il primo polo (denotativo), ma non mancano alti punti di lirismo, come nelle ipotesi di Dio (“Qualcuno dirà/che è la pre-/senza di un dio/a soffiare stasera/ nei viali”, da telecamera 1 Via Contessa Matilde), nelle riflessioni sulla morte e sulla perdita (Nel raggio della visuale/che scompare rimane/il mistero di una separ-/azione, da telecamera 2 Via Volta; “Passerà anche la morte/per qualcuno domani/passerà/come passasse a caso/passerà/perché tutto passa/in strada”, telecamera 24 Via Battisti) o sulla felicità (“Taciuta e tacitata la felicità/resta nella grafia/di un muro grigioperla”, telecamera 7 Via Corridoni).

 

Occorrenza non casuale della silloge è data dalla parola “mistero”, in riferimento all’inizio della pioggia, “Quando inizi a piovere/è un mistero”, da telecamera 18, Via S. Maria) o al “mistero di una separ-/azione” successiva all’incontro tra due persone. Come a voler suggerire indirettamente “un anello che non tiene”, un elemento indecifrabile che sfugge anche all’ “occhio ciclopico” e alla logica razionale della macchina, a sua volta limitata alla sola e oggettiva narrazione fotografica. D’altronde questa non piena consapevolezza del reale è rafforzata da un altro Leitmotiv, quello della zona d’ombra o di penombra: prendono spazio, nella raccolta, presenze non precisamente nette o definibili che lasciano il lettore con un ragionevole dubbio, allo stesso modo in cui resta aperta la domanda posta da ogni buona poesia degna di esser chiamata tale:

 

(telecamera 13 Via Mazzini)

 

Una zona d’ombra

viene oscurata

in un istante

da altra ombra:

astrazione vorrebbe

una nuvola in transito

la flessione di un ramo

o la sagoma di un bus

lì – sullo stesso lato

 

All’interno di una dicotomia tra il paesaggio cittadino (piazze, centri, condomini, residenze) e il paesaggio interiore, entrano nell’obiettivo della telecamera esseri umani, animali e fenomeni naturali. Tra gli agenti atmosferici ricorrono più spesso il vento “che fa dondolare il lampione/vento che fa piegare le piante”, il sole che “s’allunga nei cortili” e “ogni giorno ruota/d’un poco” e la nebbia che copre la visuale. La pioggia della città post-moderna, paragonata a colpi di proiettile, non è di certo la musica melodiosa che gradualmente raggiunge la climax come in una “pioggia nel pineto”, piuttosto il ritmo martellante di una fitta grandine o di una pioggerella leggera ma costante:

 

(telecamera 14 Lungarno Mediceo)

 

Piove stasera

l’Arno

è crivellato di colpi ovunque

tranne sotto Ponte di Mezzo

il giorno

ha ceduto da un pezzo

al gocciolio metodico

di liquidi proiettili

 

Altre polarità presenti in tutta l’opera sono quelle di luce e buio, rumore e silenzio, moto e stasi. Alla “scena muta” di due persone che s’abbracciano e alla felicità “taciuta e tacitata” di una scritta sul muro da una parte, fanno da contraltare, dall’altra, il cigolìo della catena di una bici arrugginita, piccioni e turisti che “tubano” di fronte alla sacralità e alla richiesta di silenzio della chiesa della Madonna della Spina, bocche che parlano ma delle cui parole, dalle telecamere, si può solo evincere la labiolettura: “c’è un rewind di parole/(si cattura dalle labbra)/Qualcun altro (oltre me)/non sente/Migliaia di bocche mutate in mute”. Corpi in moto sono una foglia che rotola, persone e automobili che transitano in strada, un portone che si apre, o “lo spostamento di un corpo singolo” che poi “si è fatto duplice”. Immobili sono invece scritte sui muri e auto parcheggiate. Poche sono le cose che restano e che resistono al tempo, il moto è anche mutamento, nei negozi che chiudono e nelle strade che cambiano la propria fisionomia:

 

(telecamera 51 Via Giusti)

C’è solo la panetteria

che resiste nella via

al civico 22

2012 – ottobre

al n.20 sta un’immobiliare –

due anni dopo

un’agenzia editoriale

soppianta la vista precedente –

nel 2018

vi si legge poi

Aruba Pec

multimedia & hi-tech –

oggi………………………………………………attesa

di un dato

più

recente…………………………………………………

 

Tutto il movimento delle riprese si gioca sul dinamismo dentro-fuori. Dall’esterno entrano nell’inquadratura parti di abitazioni o elementi della strada: “un balcone a sporgere”, un lampione che “dondola”, “le torri calciche” che delimitano lo “spazio/città/chiuso))” rispetto al “piano/campagna/aperto((”. Eppure c’è anche un mondo interno, visibile in parte, spesso attraverso accennate ombre, come in “un diradarsi di passi/il suo manifestarsi/dietro una finestra”. Al confine tra i due poli “una ragazza/che rientra al n. 5” o “una luce azzurrina” che “esonda fuori”. Ma è nell’ultima parte, la Serie di fermo-immagini, che tutta l’attenzione si sposta in paesaggi domestici, dove a prevalere è lo spazio interno, ma anche una sensazione di assenza e sospensione. Entrano in poesia “uno squarcio di sala”, un quadro, una finestra, “lo scorcio di un divano”, “il bicchiere fermo”, uno specchio, abiti appesi. O cose “che non ne vogliono sapere/di funzionare ancora”, come un orologio a muro fermo da mesi, seppure in un tempo che, ineluttabile, passa: “Nel mio al-di-qua/le auto sono auto/i passanti passanti/il pomeriggio inclina/verso una nuova data” (Serie di fermo-immagini, 3).

 

Nel complesso, il fascino e la rilevanza della poesia di Mauro Barbetti in questa raccolta mi sembra siano tutti concentrati nella sua capacità di essere letterariamente adiacente al suo tempo, facendo coabitare nel verso le due divergenti polarità di modernismo e tradizione. Ciò che, dei suoi testi, più rimane impresso al lettore sono soprattutto le immagini racchiuse all’interno della visione parziale dello schermo (la foglia al vento, il sole che sorge sulla dorsale dei palazzi, i bagagli all’aeroporto Galilei, “la passeggiata d’un uomo/con il suo cane”). Nel suo parlare in terza persona l’autore sembra, pirandellianamente, “porsi davanti la vita come un oggetto da studiare” e, così facendo, coglie aspetti dell’esistenza imprevisti e finora non detti. L’effetto finale è dunque quello di un essere umano sempre presente ma che sempre si colloca in secondo piano o sullo sfondo. Ed è proprio dalla negazione di una visione antropocentrica che, dall’interno di questi schermi, si coglie la profondissima umanità dell’autore, il cui processo di creazione poetica risulta tutto rivolto verso l’esterno. In un ambiente che non è il suo proprio paesaggio interiore ma che è, al contempo, quello di tutti noi e delle nostre storie quotidiane.