versi da La libellula, Amelia Rosselli

Da La Libellula
Amelia Rosselli (Parigi 1930 – Roma 1996)

La santità dei santi padri era un prodotto sì cangiante

ch’io decisi di allontanare ogni dubbio dalla mia testa

purtroppo troppo chiara e prendere il salto

per un addio più difficile. E fu allorache la santa sede

si prese la briga di saltare

i fossi, non so come, ma ne rimasi allucinata…

E fu allora che le misere salme dei nostri morti rimarono per l’intero in un echeggiare violento,
oh io canto per le strade ma solo il santo padre
sa dove tutto ciò va a finire. E tu le tue sante brighe porterai ginocchioni a quel tuo confessore
ed egli ti darà quella benedetta benedizione
ch’io vorrei fosse fatta di pane e olio. Dunque
come dicevamo io ero stesa sull’erba putrida
e le canzoni d’amore sorvolavano sulla mia testa
ammalata d’amore, e io biascicavo tempeste e preghiere e tutti i lumi del santo padre erano accesi. La santa sede infatti biascicava canzoni puerili anche lei e tutte le automobili dei più ricchi artisti erano accolte tra le sue mura;
o disdegno, nemmeno la cauta indagine fa si che
noi possiamo nascondere i nostri più terrei difetti, come per esempio il farneticare in malandati
versi, o lagrimare sulle mura storte delle nostre ambizioni: colori odorosi, di cera, staglíati
nella odorante stalla dei buongustai. Ma nessun
odio ho in preparazione nella mia cucina.solo la stancata bestia nascosta. E se il mare che
fu quella lontana bestia nascosta mi dicesse
cos’è che fa quel gran ansare, gli risponderei
ma lasciami tranquilla, non ne posso più della tua lungaggine. Ma lui sa meglio di me quali
sono le virtù dell’uomo. Io gli dico che è più felice la tarantola nel suo privato giardino,
lui risponde ma tu non sai prendere. Le redini
si staccano se non mi attengo al potere della razionalità lo so tu lo sai lo sanno alcuni ma ugualmente la cara tenda degli scontenti a volte perfora anche i miei sogni. E tu lo sai. E io
lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su
de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia fattucchiera, e nemmeno io so dove è che debbo prendere il tram per arricchire i tuoi sogni,
e le mie stelle. Ma tu vedi allora che ho perso anche io le leggiadre risplendenti capacità di chi sa fregarsene. Debbo mangiare. Tu devi correre.
Io debbo alzar.Tu devi correre con la coda penzoloni. Io mi alzo, tu ti stiri le braccia in un lungo penibile addio, col sorriso stretto e duro sulla
tua bocca non troppo ammirabile. E cos’è quel
lume della verità se tu ironizzi? Null’altro
che la povera pegna tu avesti dal mio cuore lacerato. Io non saprò mai guardarti in faccia; quel che desideravo dire se n’è andato per la finestra,
quel che tu eri era un altro battaglione che io non so più guerrare; dunque quale nuova libertà
cerchi fra stancate parole? Non la soave tenerezza di chi sta a casa ben ragguagliato dalle alte
mura e pensa a sé. Non la stancata oblivione
del gigante che sa di non poter rimare che entro
il cerchio chiuso dei suoi desolati conoscenti;
la luce è un premio di Dio,ed egli preferì vendersela che vedersela sporcata dalle tue oblivíonate mani. Non so cosa dico, tu non sai cosa cerchi, io
non so cercarti. Nel mezzo di una luce che è
chiara e di un’altra che è la cattiveria in persona cerco il ritornello. Nel mezzo d’un gracile cammino fatto di piccole erbe trastullate e perse nella sporca terra, io cerco, e tu ti muori presso un albero infruttuoso, sterile come la tua mano.
0 vita breve tu ti sei sdraiata presso di me che
ero ragazzina e ti sei posta ad ascoltare su
la mia spalla, e non chiami per le rime. Io
allungo le gambe e vendo i parafanghi con un
color prezioso, tu ti stilli contento in un luccichio di cattive abitudini. Io mordo la mela per sostenere queste mie deboli vene al collo che scoppia di
pena, e la macchina urla più forte della mia sensata voce. Io non so cosa voglio tu non sai
chi sei, e siamo quasi pari…