Ride – La costruzione di un dolore

Partiamo dalla fine.
In un film che di fine racconta, della fine per antonomasia, cioè della morte, un tema sicuramente altamente filmico, ma poco intrapreso nella famosa vita di tutti i giorni.
Ancora più se si tratta di una fine che è invece altamente ignorata, dalle istituzioni e dalla politica, e che viene talvolta citata dai mass media più per costruire pornografia del dolore che per denunciare la media italiana di più di tre morti al giorno – quei morti che pure in una definizione fintamente candida vengono definiti morti bianche probabilmente per lavarsene tutti le mani – sul luogo di lavoro e a causa del lavoro.

In questo, come è stato evidenziato, l’opera in questione è sicuramente un prodotto politico, nel senso più alto e lucido del termine.

Partiamo dalla fine perché nell’ultimo fotogramma del film inizia a cantare Ivan Graziani e la sua E sei così bella, e il ricordo va alla – a mio sindacabile giudizio – migliore interpretazione di Mastandrea, nel film di Zanasi “Non pensarci”, che termina anch’esso con una canzone di Graziani.
Un finale – intensissimo – in cui la protagonista guarda per un secondo la camera da presa insieme al figlio (segue, appunto, Ivan Graziani).

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Si tratta dunque dell’ultima scena di Ride, film d’esordio di Valerio Mastandrea, che fa venire alla mente un altro film delicato e ingiustamente dimenticato, anch’esso film d’esordio di un altro attore italiano, quale è Anche libero va bene, di Kim Rossi Stuart, storia di una famiglia e di come il dolore da essa emanato venga affrontato da un ragazzino.
Nell’intenso film di Mastandrea – uno dei migliori film italiani degli ultimi anni, che potrebbe essere inserito di diritto in una particolare triade insieme al già citato Anche libero va bene e Miele (film d’esordio di un’altra attrice di professione, come Valeria Golino, in cui la morte gioca un ruolo decisivo) – la protagonista – un’azzeccatissima e mai fuori fuoco Chiara Martegiani – rimane vedova a causa della morte del compagno morto in fabbrica, ma non riesce ad abbandonarsi al dolore.
Se la società ci inquadra in ruoli già premeditati – la vedova piangente e distrutta dal lutto – alla protagonista invece non riesce di calarsi nel personaggio.

Come Kafka fa risvegliare un mattino il povero Gregor Samsa in un modo in cui appare del tutto normale e naturale nella veste di uno scarafaggio, così Mastandrea cuce in modo del tutto originale, con una leggerezza sempre in costante equilibrio, un ruolo in cui la compagna dell’operaio morto non si strugge dalla disperazione, ma tenta di scavare dentro se stessa per cogliere i motivi dell’assenza delle manifestazioni del dolore.
Non riuscendo a piangere, tenta di farlo in vari modi, ma come ordinare o comandare le emozioni?
In una scrittura quasi sempre misurata e una maturità inedita per un regista esordiente si perdona qualche ingenuità stilistica – la pioggia in casa – dettata probabilmente dall’affetto che traspare in filigrana da parte del regista nei confronti di tutti i suoi personaggi (da segnalare inoltre l’interpretazione di un ottimo Stefano Dionisi).

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Uno dei meriti di Mastandrea sta nell’essere riuscito a bilanciare in modo sapiente scene apparentemente leggere, quelle che coinvolgono in particolare i giovani interpreti e gli anziani – fra cui Milena Vukotic e Renato Carpentieri – con quelle della costruzione del dolore della protagonista, nonché ad intrecciare una calzante colonna sonora e pur nella sua integrità infilare anche qualche rimando (la scena del piatto di spaghetti fa tornare alla mente il celebre finale di Blow up di Antonioni).

Ma quello che più sorprende è l’originalità non solo del tema prescelto per un film d’esordio, nonché il coraggio con cui viene affrontato e dispiegato (le morti sul lavoro, e il dolore che consegue alla morte di una persona cara), ma anche il punto di vista del narratore (Mastandrea è uno dei due autori della sceneggiatura), quasi inedito in Italia: lo sguardo cioè non stereotipato di una protagonista femminile.

La sensibilità artistica dell’attore romano ci fa sperare in un cinema italiano che possa essere non schiavo di una distribuzione spesso dominata da logiche industriali: sarebbe infatti un peccato rinunciare alla possibilità di vedere un nuovo regista e autore di talento alla sua seconda prova.

Giuseppe Rizza