SARAH KANE: MUTAZIONE DEL DESIDERIO DIADICO.

Scrivere di teatro non è mai facile quando oltretutto è doveroso prestare attenzione ad ogni minima parola, sillaba o lettera che l’autrice che si vuole analizzare mostra come complessità diversa dal solito sia per quanto concerne la vita privata – nello specifico della mia analisi non verrà presa in considerazione – che nella stesura delle sue sceneggiature.

Il teatro è vita, è emozione non filtrata che affonda nelle radici stesse dell’ esistenza, ove dipartono i sentimenti divenenti strutturati attraverso un atto razionale, che lascia spazio alla creatività; il teatro è creatività, ove per creatività si possa pensare anche al surrealismo e all’annullamento delle dimensioni, ove spazio e tempo divengono le matrici di partenza dell’unicum dell’individualità.
Dovendo analizzare l’opera drammaturgica di Sarah Kane si evince come la dimensione dialogante sia strutturata sul monologo tra i vari personaggi. Ciò che si è scritto non vuole rappresentare una contraddizione, bensì la rivalutazione del potere trasformante del dialogo come apportante mediazione anche – e soprattutto – dinanzi alle contraddizioni tra la dimensione interna e la dimensione esterna.

Attraverso l’arte teatrale la giovane regista inglese ha esternalizzato quanto di caotico vigesse nella sua psiche. Quanto di caotico è rappresentato nei suoi drammi teatrali si snoda intorno a temi enantiodromici, ove il lato giocoso diviene atto attraverso cui mostrare la potenza desiderante un’Anima inquieta che volge lo sguardo su atti scontati e semplici che ogni giovane dovrebbe poter compiere senza timore d’essere avvinta dal giudizio di chi guarda la giovane Sarah dimenarsi tra cadute depressive e manifestazioni megalomaniche negli spartiti dei suoi personaggi.

Ogni sillaba, ogni movimento riguardante la partitura fisica comporta una valutazione psicologica che possa nutrirsi di riferimenti teorici ove trovare il supporto della genesi dell’opera teatrale della Kane: il tema del desiderio è centrale ogni qualvolta si cerca di elaborare una ri- lettura dell’autrice.
Cos’è il desiderio? È la matrice da cui si dipana la possibilità di vita dell’individuo, le possibilità di relazione e le seguenti modificazioni che avvengono nella personalità individuale. Naturalmente la matrice originaria del desiderio la si individua nel rapporto con la madre e nell’evoluzione stessa dello stile d’attaccamento relativo alla dimensione caratterologica della persona: l’ambivalenza presente nella Kane è caratterizzante una sostanziale relazione d’attaccamento insicura che ha lasciato traccia nel monologo che si sta cercando di analizzare: volere o non volere, desiderare o non desiderare? I conflitti interni irrisolti sortiscono una lettura della realtà edulcorata a tal punto da lasciar trasparire una sensazione di impotenza che nell’ambiguità si risolve in un narcisismo mortifero ove lo stile poetico della stessa è niente altro che il complesso di inferiorità che spinge la stessa a togliersi la vita a soli 28 anni. Volendo leggere analiticamente – quindi simbolicamente – il suicidio, la portata trasformativa per l’autrice è tale da configura l’entrata nell’eternità, poiché si lascia spazio alla riflessione tra gli astanti e alle riletture di altri registi/sceneggiatori che vedono zenit l’opera della drammaturga inglese: soltanto cinque opere teatrali. Non v’è bisogno di dire che la qualità la si può esprimere anche soltanto in un’opera che rende immortale l’autore se coglie nel segno colui che legge.

Analizzando il desiderio dell’autrice si evince come per questa fossero importanti il contatto diretto, sia esso fisico, che empatico. In effetti i dialoghi in cui i personaggi si lasciano andare traspare una notevole ricorsività del contatto: voler baciare, voler accarezzare e voler vivere; l’eros inteso come forza vivificante bacia – a mio avviso – tutta l’opera dell’autrice: l’eros è ciò che trasforma e come messo in evidenza dalla Psicoanalista Rossella Valdré, è sempre Eros che trascina con sé, nell’elaborazione dell’opera d’arte, Thanatos che diviene anch’esso salvifico. La pulsionalità è sempre al centro della valenza creatività dell’individualità artistica: quanti sarebbero stati capaci di “creare” non essendo toccati da un sostrato di follia, sana follia – tanto cara a Jung -. l’occhio deformato dell’artista permette di unire emisferi tra loro divisi all’atto dell’incontro con la valenza decostruente del collettivo, della società che ripudiano la sperimentazione portata avanti dagli artisti con installazioni che vertono sull’illusorio modo reale che non lascia spazio alla creatività, bensì vuole che vi sia una continua modulazione verso il basso. Chi scrive ritiene che la Kane abbia tentato di assorbire quanto elaborato da grandi drammaturghi inglesi come Beckett, o da Artaud unendovi il suo mondo scisso, lasciando fluire le emozioni del primo incontro tra l’infante e la madre, o ancora il primo incontro tra l’amata e l’amante etc.

Il mondo scisso tra amore narcisista e dolore come espiazione della diversità sono mescolati in maniera magistrale a tal punto che la disperazione del non possesso dell’individualità dell’altro diviene il canto d’esaltazione dell’erotismo tra due individualità, niente altro che due facce di sé stessa. Ogni tentativo di porre tra le briglie l’istinto erotico da parte dell’autrice è riverso a terra perché ciò che detiene potere – Eros – necessità per sua natura di un menestrello che ne canta le gesta: la messa in scena sul palco è proprio una sorta di sonata data, donata agli astanti che nella sperimentazione della modalità recitativa esprimono – condensando – il mondo interiore, tanto dell’autrice, quanto di ogni singolo spettatore o attore.

Ogni azione – dal fumare una sigaretta alla attesa del ritorno di uno sconosciuto – la poesia della drammaturgia della Kane esprime il senso stesso dell’ars amandi, capace di non restare bloccata innanzi l’impossibile, anzi trovare nell’impossibile il traino perché possa avvenire il cambiamento che apporta nuova linfa vitale. Si pensi all’altissimo valore simbolico che si potrebbe dare al bacio unito alla sinuosità de corpo femminile, nella fattispecie della schiena, del dorso che divengono teatro nel teatro ove la carezza e incontra la sinuosità donata dalla Natura, ribelle innanzi alla potenza evocativa dei versi teatrali degli scritti di Sarah. Il bacio è ciò che dona sapendo soddisfare l’ancestrale desiderio di possesso che l’autrice ha deciso di ripudiare all’atto della scelta della non vita. Ovviamente è molto difficile esprimere una idea su quanto sia accaduto nella psiche di un’autrice molto giovane donata al teatro e alla scena internazionale come fosse una stella da mirare e al contempo da non far brillare, quanto detto esprimere ambivalenza, quell’ambivalenza che ognuno di noi esprime quando i sentimenti non sono del tutto chiari.

Donna adulta e bambina, personalità strutturata intorno ai contrari, la forza trainante dell’infanzia unita alla meraviglia per la foresta incantata rappresentata da ella stessa, l’arte di Sarah è forgiata nella forza del fuoco plasmante il desiderio stesso. Aspetto importante del monologo che si sta analizzando è certamente la musicalità che assumono le singole sillabe unite ad uno sfondo ove permane lo spaesamento, la confusione per la poca chiarezza che accompagnano una giovane baciata dal talento e racchiusa in un bocciolo ove le meraviglie si snodano a partire da vie impervie ove tutto permane mutando giorno dopo giorno.

Il sogno di essere catturata da un Amore totalizzante che fosse emanazione dell’amore che vige nella diade madre- bambino pervade ogni sillaba delle opere della scrittrice inglese. Il desiderio di potersi raccontare non avendo timore del giudizio, fantasticare su regali fatti e rifiutati ma nel rifiuto una costante ricorsività della tematica dell’Amore universale che lascia trasparire quanto il vuoto – nella drammaturga – sia realmente un vuoto nella vita di tutti i giorni. Fantasia al servizio dell’impossibilità di appagare il desiderio di vita espresso nelle opere teatrali, fantasia che pone in essere il grido d’allarme di una individualità sofferente che ha come filo conduttore la paura di non vedersi accettata. Per alcuni versi quanto scritto dalla giovane inglese è analogo a quanto espresso in musica dai Pink Floyd: chi scrive traccia una linea immaginaria ed immaginale tra 4.48 PSYCHOSIS e Sorrow contenuto in uno dei dischi più belli della rock band inglese “A momentary lapse of reason”, in cui ciò che si evince è il rifugio in una realtà altera per sondare il vero limite della personalità umana: il limite lo stabilisce l’individuo quando decide di staccarsi da questa vita per trovare asilo nell’arte o alienandosi definitivamente lasciando spazio a quanto di più creativo possa esservi: l’unione della poesia e della recitazione, semplicemente il teatro. Arte teatrale che rappresenta la migliore cura contro lo spettro della depressione e dell’emarginazione. Andando a sondare territori ancestrale Sarah Kane ha osato – a mio avviso – andare a toccare i punti nodali di una società invischiata nel perbenismo e nella falsità, tanto da etichettare ella come una visionaria in cui ogni personaggio, in fin dei conti, rappresentasse l’autrice stessa, presa dal suo non essere nel mondo, in realtà l’esserci di Sarah è stato totalizzante fino a quando non ha voluto che l’esclusione la prendesse e la portasse via dalla realtà.

Parlare come un tedesco o parlare un cattivo ebraico è metafora dei conflitti che ogni individuo vive nell’ambivalenza dell’essere al mondo.
La fine della vita può essere intesa anche come una esaltazione che pone termine ad una relazione d’amore, è interessante cogliere metafore che la Kane magari non ha neanche pensato. Il teatro scritto da Sarah è un teatro sociale, è un teatro in cui la crudezza si sostituisce alla prosaicità dell’arte teatrale. Vivere l’attimo, cogliere il quid di una battaglia creante migliaia di morti vuol dire porsi al di fuori di una realtà che si vuol diversa ma non lo si dice; è più semplice fuggire in quanto non ci si mette in gioco specialmente quanto si è vinti dal disprezzo per se stessi. Crave rivela la dimensione sofferente dell’Autrice che pone la centro un monologo dialogante in cui la profondità si può coglierla soltanto se ci si allontana dal pregiudizio di una arte teatrale innovativa e trasformante.
Nel momento in cui la giovane drammaturga muore, i suoi testi vengono rivalutati nell’ambito delle accademie di recitazione, come esempio di prosecuzione dell’opera del suo maestro Edward Bond.
Dimensione concreta di una vita vissuta combattendo che diviene il lato costruente di un’arte che vuole il dialogo come forza motrice cui manifestare i sentimenti cosi come accade tra il neonato e la madre nei primi momenti di vita in cui si instaura il legami diadico.

L’arte lascia trasparire vita, che potrebbe rivelarsi distruzione se non compresa nella sua complessità diversa.
Scrivere una recensione di un’opera teatrale è impresa ardua, in primis perché non si è mai critici ma ci si pone osservatori – come dice Jung è l’osservatore che cambia, non l’osservato – di un mondo difficile da penetrare poiché sul palco del teatro no vanno le sole sillabe, ma sale alla ribalta anche l’autore del testo.
Non conoscevo questa autrice e devo dire francamente che si presta a ottimi lavori di lettura psico -analitica.
Il teatro è vita su di un palco mutevole; la vita è un palcoscenico di cui si conoscono solo le quinte.

(Alfredo Vernacotola)