Storia della voce III

a cura di Giorgio Galli 
 

Le voci di cui abbiamo parlato fino ad ora erano tutte voci pubbliche: vale a dire incise per essere riascoltate in un contesto pubblico, in una specie di piazza. Anche il cinema era una specie di piazza. Ma cosa succedeva a quelle voci quando parlavano fra loro, dentro casa? E cosa è successo quando, dalle piazze e dai cinema, sono finite a parlare in televisione, arrivando dentro le case e parlando come si parla nelle case?

Molti coetanei di Trotzkij e Majakovskij hanno avuto la fortuna di morire nel proprio letto in un’epoca in cui lo stile di comunicazione era diventato più informale. Possiamo sentire le loro voci in documentari e interviste. Sono politici, letterati, imprenditori, ma anche persone comuni chiamate a testimoniare su certi avvenimenti storici o fenomeni di costume: Louis-Ferdinand Céline, Roberto Longhi, Sandro Pertini, Enzo Ferrari, Otto Frank -il padre di Anna-, Max Brod -l’amico di Kafka-, Lina Merlin -la senatrice che abolì le case chiuse-, queste persone hanno rilasciato interviste tra il secondo dopoguerra e gli anni Ottanta, ed è evidente che il loro parlare era diverso dal nostro. Mettevano aria tra una parola e l’altra, e facevano sentire i segni di punteggiatura -mentre noi tendiamo ad abolirli. Sembravano eseguire una partitura porgendo attenzione alle arcate. Gli “ehm, uhm, ahm” caratteristici del nostro parlato, dal loro erano quasi assenti. Si prendevano il tempo per pensare una parola prima di pronunciarla. Noi siamo abituati ad attribuire una certa cantilena, tipica dei nostri nonni, alla loro età avanzata, ma in realtà era il modo di parlare di una volta. Per questo la voce di Mascagni nel 1940 era sì una “voce fascista”, ma rifletteva anche uno stile che era stato precedente al fascismo. Da quanto tempo era in vigore quello stile? Non possiamo stabilirlo. Istintivamente, viene da dire che era in vigore da sempre e che è stato stravolto nel giro di pochissimi anni. Non possiamo provarlo, ma è possibile che sia così. Esiste una specie di rullo, una “registrazione” -si fa per dire- di un famoso organista del Settecento realizzata con un nastro perforato, come se fosse un carillon: in quella registrazione possiamo apprezzare il fraseggio aristocratico e le libertà agogiche, come nei discorsi di Harrison , McKinley e Mascagni.

Ci abbiamo guadagnato o perso, nel cambiamento? Un po’ tutte e due: era ora di finirla coi toni altisonanti, le pompe e le cerimonie di una macchina sociale che oltretutto opprimeva i tre quarti dei suoi componenti. Ma era necessario arrivare a questa morte dell’anima, a un punto della storia in cui il suono della voce umana è del tutto anaffettivo?

Ci sono due esercizi che possiamo fare. Il primo consiste nel verificare se anche in passato i vecchi si lamentavano del modo di parlare dei giovani -come facevano i miei nonni, che dicevano “Voi giovani parlate così veloce e a bassa voce, che non si capisce niente”. Il secondo consiste nell’ascoltare come parlano le persone in Paesi meno ricchi dei nostri, in cui i mezzi di comunicazione di massa arrivano più lentamente.

                                               

Per il primo esercizio, c’è uno scambio di lettere tra due grandi attori italiani dell’Ottocento, Tommaso Salvini e Adelaide Ristori. E’ il 1899. Salvini scrive: “Ai nostri tempi si faceva meglio o peggio? Sono peggiorati gli Artisti, o il pubblico? Siamo noi che avemmo torto, o lo hanno loro?” La Ristori risponde: “Volete sapere quello che io penso di questa nuova interpretazione dell’arte nostra? Molto male! La nevrosi è la malattia che sconvolge il cervello umano in questo fin di secolo! Il pubblico è attaccato da questa orribile malattia e guasto il vero gusto del bello nell’Arte rappresentativa. Io, modestamente, sono d’avviso che l’attuale forma di interpretazione è falsa e acrobatica”. Dunque c’è sempre stato chi si lamentava del modo di usare la voce dei più giovani, e magari, se potessimo ascoltare Shakespeare e Dante, scopriremmo che entrambi preferivano uno stile non declamatorio, forse non simile al nostro, ma nemmeno a quello dell’Ottocento.

L’altro esercizio potrebbe dare un risultato anch’esso sorprendente: nei Paesi più poveri ci capita non di rado di sentire voci stentoree -avete mai detto “Gli arabi e i greci sembrano litigare sempre”?- e a volte un’enfasi a noi sconosciuta: e non solo nel parlare, ma anche nei gesti troviamo una chironomia ieratica, cerimoniale, tra teatro e chiesa: eppure siamo in mezzo alla strada.