Temo il silenzio delle tue mani – breve nota sulla poesia di Mahmud Darwish

a cura di Giuseppe Rizza

Con “La saggezza del condannato a morte e altre poesie” la casa editrice Emuse cerca di rilanciare la figura di Mahmud Darwish anche in Italia, dove è quasi esclusivamente noto per le sue opere in prosa (“Trilogia palestinese”, pubblicata da Feltrinelli); sotto la cura di Tareq Aljabr, traduttore dei versi insieme a Sana Darghmount, e il riadattamento dei testi in italiano di Emiliano Cribari (autore che ha sperimentato recentemente una commistione fra poesia e fotografia, con il suo Errante, sempre per Emuse) viene presentata una selezione di poesie dell’autore nato in Galilea.

Due sono le correnti piuttosto evidenti da cui sembra essere attraversata la poetica di Darwish (definito da Saramago “il più grande poeta del mondo”): la tematica amorosa, caratterizzata sempre da una grazia in punta di penna, soffusa, in cui la lei riceve i favori del poeta grazie alle armi della retorica;

e una tematica inevitabilmente politica, per la storia e le radici dell’autore stesso, proveniente da una terra martoriata qual è la Palestina.

Quest’ultimo aspetto appare in filigrana anche nei componimenti non strettamente politici, in cui Darwish riesce comunque con strumenti polemici e una voce netta, a dare voce e spazio al suo popolo anche nei versi apparentemente più intimi, tanto da far diventare la sua scrittura una poesia inevitabilmente politica (“e noi amiamo la vita / se troviamo la via per viverla”).

L’amore altresì è enfatizzato, un sentimento atavico ricevuto in dono dalla nascita, uno strumento retorico, scampoli di seta che compaiono a sorpresa dal nostro bagaglio (“temo le attenzioni delle parole”), una forma docile pur nella sua codificata reiterazione, vero sottofondo musicato della composizione: l’incedere dei versi di Darwish è il grido melodioso del muezzin: una formula in cui ci si ritrova da secoli.

L’erotismo è spesso celato, in controluce, un gioco di chiaroscuri (“A me basta una mano di donna nella mia / per riabbracciare la libertà / e far rinascere maree nel mio corpo”).

Il risultato è una poesia opulenta, che ha i fianchi armoniosamente larghi di una matrona, marmorea nell’utilizzare gli stilemi della poesia classica, una brocca di latte abbondante lasciata sul tavolo in cucina (“Ho la saggezza del condannato a morte: / non ho cose da possedere / né posso esserne posseduto”).

Cammina lentamente, vita,
così posso guardarti in tutta la tua costante
imperfezione.