togliermi dalla scena e lasciare che le cose accadano, Ilaria Seclì

a cura di Giorgio Galli

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Poco più di un anno fa, il 16 agosto 2021, ho imparato a vedere: vale a dire, ho scattato la mia prima fotografia consapevole. Ho sempre avuto una passione per il reale che la scrittura non riusciva a riflettere, e che ha trovato sfogo nella pratica dello scatto e nella conoscenza di grandi fotografi-poeti come Luigi Ghirri, Guido Guidi e Claude Nori. Purtroppo la materia visiva è una delle più inquinate oggi, e bisogna disincrostarla sia dal brutto che dal troppo bello che invadono gli occhi ogni giorno. Io imparo a farlo, imparo a distinguere immagini pure nell’alluvione di stimoli retinici della contemporaneità, imparo anche a castigarla un po’ l’immagine, e faccio un esercizio di autodisciplina ogni volta che scatto e che scelgo una fotografia fra quelle realizzate in un giorno.

 

 Ho capito che con la macchina fotografica posso fare quello che mi riesce meno nella scrittura: togliermi dalla scena e lasciare che le cose accadano. La scrittura non può fare a meno di una presenza autoriale: non è possibile, scrivendo, fare quello che John Cage ha fatto con la musica in 4’33’’, dove per quattro minuti e trentatré secondi un pianista resta seduto senza far nulla, e il pubblico ascolta il proprio silenzio nella sala. È impossibile, scrivendo, eludere la presenza di un Io cosciente. Invece, con la fotografia, si può lasciare che le cose parlino di se stesse e da se stesse.

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Quando fotografo, l’altra persona, quella che scrive, è in ferie perché la fotografia è una forma di pensiero muto, non verbale. Sarà per questo che i titoli non mi riescono, e preferisco indicare le foto solo col luogo e la data in cui sono state prese. Ho cercato spesso di cancellarmi dalla scrittura, il mio ideale sarebbe che la scrittura si scrivesse da sola, senza l’ingombro dell’io. La fotografia permette di lasciare che i paesaggi, i volti e gli oggetti si esprimano da soli: da parte mia io devo solo vedere e scegliere.

Ilaria Seclì è un esempio di questo modo di intendere la fotografia, con le fotografie che da qualche tempo va pubblicando sui social media: fotografie che, indipendente dalla maggiore o minore riuscita artistica del singolo scatto, rivelano un’attitudine di puro, indisturbato ascolto della realtà. Nelle sue fotografie, come nelle sue poesie più elevate, Ilaria si lascia attraversare dall’esistente, quasi annullandosi, come un registratore del mondo, un deposito di memoria cosmica.

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Ma ad attraversare l’universo di Ilaria non è tutto l’esistente: sono le cose minime e semiscomparse, le tracce minuscole del regno vegetale e minerale, qualcosa del regno animale, e, dell’umano, solo ciò che è scomparso o rischia di scomparire da un pezzo: edifici diroccati, le cui finestre aperte sulla natura risultano a loro volta simboliche dell’attitudine a farsi nulla di Ilaria, al suo essere puro ascolto; stendardi e scritte simbolo di utopie novecentesche ormai in disuso; luoghi dotati di una sacralità intemporale.

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È un’arte fotografica elementale, che sposa l’etica che l’autrice ha mirabilmente espresso nel suo ultimo lavoro, la raccolta di prose poetiche L’Impero che si tace (Ladolfi, 2020): dove l’impero che si tace è proprio l’insieme, poderoso e fragilissimo, delle cose a cui nessuno dà più valore, delle cose microscopiche o gigantesche, delle figure umane sbattute fuori con violenza dalla storia. Un rifiuto rabbioso del nostro tempo è sotteso a questo atteggiamento; ma, se nelle poesie è ancora presente un tratto protestatorio, le immagini fotografiche di Ilaria assorgono a una purezza inusitata, si equivalgono a meri fossili dell’Impero che si tace: forse precorrendo gli sviluppi futuri e ulteriori della sua poesia. E in ciò sta il loro carattere esemplare.

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scritture di frontiera (Giorgio Galli)

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