Approfondimenti
TORNARE È UN ERRORE parte 2
Breve riflessione su: Dove tutto ebbe inizio, di Vitaliano Trevisan
“In effetti, più passa il tempo, più mi rendo conto che tornare a vivere qui non è stato affatto una buona idea”.
a cura di Giuseppe Rizza
“La cosa migliore è restare fermi, indifferenti agli altri e a se stessi, qualsiasi cosa significhi”.
Ma in questi balzi continui e passaggi che sono dei cambi di direzione o delle inversioni a U, Trevisan riprende il discorso riguardante il suicidio (“[…] quando non sarò più in grado di pagare le bollette, quanto resisterò asserragliato in casa dopo che mi avranno tagliato luce acqua e gas?”).
È quella dell’autore vicentino una disamina che è una costante critica, sempre diretta e a testa bassa, già avviata nel precedente Works, nei confronti della società e delle sue dinamiche, non solo quelle riguardanti il lavoro, che è feroce e spietata.
Tale critica diventa sistemica e investe non solo molti aspetti della contemporaneità, ma del vivere, e quindi del genere umano.
Il nichilismo – un termine che appare quasi svuotato di fronte all’incedere della scrittura di Trevisan – dell’autore discende da quello del già citato Bernhard e da Beckett (altro scrittore di culto per Trevisan), e non ha vie di scampo, non accetta tentativi di fuga, compromissioni con la morale costituita e imperante, brucia tutto, la sua forza è devastatrice.
Eppure, leggere questo testo è come tentare di superare un campo minato, schivare ostacoli che vengono fuori dal paesaggio: ancora una volta Trevisan racconta di come un’opportunità potrebbe essere quella di sostituirsi al nonno-vigile che aiuta gli studenti ad attraversare la strada, dato che è morto, o meglio: “è stato trovato morto nella sua casa, dove, dopo la morte della madre, viveva solo, il trenta di dicembre dello scorso anno. Un anno più di me! – cioè, mentre sto scrivendo, la mia stessa età”.
Non so se sia giusto, o corretto, ai fini di questo mio breve saggio – se così possiamo definirlo – ricordare che Trevisan è morto il 7 gennaio, ed è stato ritrovato senza vita nella sua casa in cui abitava da solo.
“Nel mio caso, […] verrei comunque trovato dopo alcuni giorni, vacanze di Natale o no. Per il resto, l’inevitabile articolo sul “Giornale di Vicenza”, potrebbe iniziare nello stesso modo, con le stesse identiche frasi. […] Addormentarmi e non svegliarmi più, anche stanotte. È un pensiero così antico, che non ricordo nemmeno più quando lo pensai la prima volta”.
Forse non serve a molto aggiungere altro, ulteriore, commento.
Trevisan, o la voce del narratore, riprende a camminare, il suo vagabondaggio notturno continua (“Le passeggiate notturne sono estremamente pericolose”), ma è un itinerario che non ha requie, un pellegrinaggio inquieto che non ha soluzione.
L’autore arrivando a una piazza dove da un lato ci sono le case operaie e di fronte il teatro/dopolavoro si concentra nuovamente ad occuparsi di lavoro e di come questo sia legato al concetto di territorio.
Il ricordo va a una delle prime prove d’attore di Trevisan (che attore lo è stato parallelamente alla sua carriera d’autore, sia per il cinema che per la TV), proprio in quel teatro dopolavoro in cui raccolse un grande successo con uno spettacolo del nō giapponese, nella parte di un pescatore. La prima replica in un teatro della zona invece, ricorda Trevisan, non ebbe nessuno spettatore (“Certo, penso ora, chi non vorrebbe passare il sabato sera a teatro per assistere a uno spettacolo di teatro del nō giapponese, messo in scena da una sconosciuta compagnia di dilettanti, alcuni addirittura esordienti, che non sapevano nulla non solo del teatro del nō giapponese, ma di teatro in generale?”).
Seguirà, così Trevisan, una pausa dal teatro di ventisei anni. Ma l’autore vicentino, pur essendo ormai, al momento della scrittura del testo, un autore di teatro, non può non approfittare dello spunto per picconare le condizioni del teatro contemporaneo (“Restando ai teatri come luoghi fisici, mi sembra che abbiano molto in comune con certi vecchi, peraltro sempre più numerosi, che, se non sono morti, non sono però neanche vivi, ma piuttosto tenuti in vita”).
Trevisan sottolinea l’esistenza di teatri abbandonati ormai quasi in ogni paese, dato che “finito il lavoro, finito anche il dopolavoro”.
Ma eccolo tornare a stilettare uno dei suoi colleghi, uno scrittore “di montagna” con canottiera e bandana, che manda avanti il suo messaggio riempiendo i palasport: “Bisogna tornare ai ritmi della natura” (“Che stracazzo si potrebbe e dovrebbe fare per tornare effettivamente, qui e ora, ai ritmi della natura? Poi mi ricordo che farsi domande sul nulla non porta a nulla, e riprendo a camminare”).
L’autore in questa fase del suo racconto si concentra su uno degli argomenti che ha già toccato in passato, sia trasversalmente in quasi tutti i suoi romanzi, sia dedicando a questo di fatto un intero libro (Tristissimi giardini, uscito nel 2010 nella celebre collana Contromano di Laterza), cioè il concetto di territorio.
Probabilmente inutile ribadire che il territorio in analisi è quello del vicentino, cioè quella porzione di spazio che il nostro autore conosceva, e sapeva carotare e criticare, benissimo.
Trevisan nota come tutto ciò che di nuovo sia stato costruito sia pulito e in ordine, e soprattutto vuoto, sia alla luce del sole che di notte, senza pertanto presenza umana che renda le costruzioni vive: il territorio è solo uno spazio da attraversare.
Ma lo spazio è ora attraversato da due ombre: un uomo con al guinzaglio un cane (Sei tu, dice l’ombra più grande, che subito riconosco. Pochi anni meno di me. Un tempo viveva vicino a casa mia. Sì, rispondo, Sono io – in verità non sono mai così sicuro).
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