Trova’ pasturella

Trova’ pasturella

        Ma le storie che accadono di notte
       si lasci che di notte finiscano

                                                        Bei Dao

 

   All’uscita dell’aeroporto Falcone e Borsellino, una ragazza dal volto pallidissimo mi guarda fisso. Alza l’indice verso di me, indugia un attimo, poi sorride: “Sei tu!”.

   Non l’ho mai vista. Mi sforzo di ricordare, ma no, non so chi sia. Lei è delusa, ma non si arrende: “A Terrasini, un anno fa”. No.

   “Scusa, ma mi sembrava davvero che fossi tu”.

Non lo sono mai. Se lo fossi, non sarei io.

                                                 ***
 

13

 
In una radura tra le bancarelle del Mercato del Capo, a Palermo, due cani sono distesi al sole, il primo ha la testa ripiegata sul petto, il secondo dal petto l’ha allontanata all’estremo lasciando la gola aperta alla luce.

Io sono solo come un cane rognoso, divino. Dio, nel suo etimo, significa “luce diurna”, ma è un’invocazione dal fondo della notte, come lo sguardo di Orfeo su Euridice.

Non vedo nei cani l’umanizzazione gentile che di norma se ne fa. Ne vedo soltanto la brutalità del nodo randagio di carne in cui consistono, la pura animalità senza casa padronale. Cane e furia e follia e docilità alla morte. Anubis, il Cane Divino degli antichi egizi, veniva denominato colui che presiede l’imbalsamazione, o colui che è sulla montagna (dove venivano scavati gli ipogei), e anche colui che è nelle bende. Nella mitologia giapponese si parla di come, per generare un inugami, un nume della vendetta, occorra seppellire un cane fino al collo e porre del cibo che la sua bocca non possa raggiungere: ci vorranno giorni perché il cane muoia, e durante questo tempo il padrone ripete al cane che la sua sofferenza è insignificante in confronto alla propria.

Come un cane bastonato sotto la grandine, scrisse Ezra Pound. A Salonicco, vidi un branco di cani randagi lanciarsi follemente contro le automobili a un incrocio nei pressi dello stadio Kaftanzoglio e incredibilmente sopravvivere, in apparenza per l’abilità dei guidatori a schivarli, ma io pensai a un volere nero che protegge il dolore dalla sua estinzione.

I cani del Mercato del Capo stanno dormendo in una pace efferata. Mi sbrana il petto, e non respiro. La violenza animale della tranquillità mi copre gli occhi come una benda. Me ne torno in fretta alla casa di Piazza Sant’Anna, salgo in apnea le scale dissestate fino al quinto piano. Ho in bocca il sapore della polvere sospesa nell’aria nella casa fatiscente.

Attendo che Nerina trovi la modella adatta per la sessione fotografica. Non è facile. Nei giorni scorsi abbiamo parlato di possibili situazioni d’immagine. “Ne facciamo una in cui lei, materna, ti porge i seni e tu li succhi”. No, la mamma no. E non sorrido. Non sorrido mai in pubblico, e poi non sorrido perché andiamo a trattare del sorriso. Si tratta sempre un oggetto in assenza dell’oggetto di cui si tratta. In presenza dell’oggetto di cui si tratta, la parola si trasforma in chiacchiera, il suono in ritornello, l’immagine in santino, cioè in imitazione. Allora trattiamo del sorriso, rigorosamente senza sorridere. Il sorriso è una forma di autocannibalismo. Cannibale viene da una storpiatura di caribal, una parola caraibica che vuol dire ardito. Il sorriso è un ardire. È la scomposizione di un ordine, dell’ordine e del potere del volto. È la ferita benedetta del volto. Ho sempre associato il sorriso all’orgasmo. Ferite benedette al potere del volto. Non è vero che il sorriso sia rappresentabile. Francis Bacon non è mai arrivato a rappresentarlo. Il ghigno, si può rappresentare. Il sorriso, come l’orgasmo, è roba per ciechi. Io ho bisogno di intimità, di cecità, per sorridere. Come per fare l’amore. Come per ubriacarmi. Per sorridere, per fare l’amore, per ubriacarmi, non ci sono belle compagnie.

Quanto all’asilo, sarebbe meglio un canile, o una cava di marmo.

Ti voglio parlare, Nerina, di una piccola ceramica proveniente dal Perù, di cultura nazca, Donna che dà alla luce una testa mozzata. Raffigura un corpo femminile, morbidamente ocra (un volto maschile schematicamente dipinto in nero sul ventre): dal sesso sporge il capo di una vittima sacrificale –di guerra o di giustizia?- il cui volto è inconfondibilmente segnato dalla violenza e le cui labbra sono provviste di spine per trattenere l’anima.     

È il circolo vizioso dell’orior su di sé, il circolo chiuso del ventre sull’aria che respiro.

Dall’oscenità documentale di Internet al tanga farisaico di Al Jazeera, mi sovvengono gli sguardi (il dare alla luce) sulle decapitazioni degli ostaggi in Iraq, o la dolcezza velenosa, farmacologica, del sorriso di una soldatessa americana sopra il cadavere di un prigioniero di Abu Ghraib (il corpo è fasciato, colui che è nelle bende, le mandibole bloccate… per assicurare l’assistenza dell’anima alla luce sorgiva?).

Pietà occidue e orientali, orientate al vacuum del seme (chi?), del punto o della linea (chi? chi?).

Si dice: “Ciò che per uno spettatore occidentale può sembrare erotico, le gambe femminili aperte o delle sculture di belle donne che si afferrano i seni, non lo è per un abitante d’Oceania o d’Africa, dove la prima immagine è un gesto di benvenuto al visitante e la seconda un simbolo di rispetto al mondo spirituale, di protezione o d’invocazione alla fertilità. Un membro maschile eretto può significare semplicemente attenzione o vigilanza”.

M’interessa quest’ultima annotazione, che separa dalla vigila l’eros e lo conforma allo stato onirico. Quindi, questo è luogo di schematizzazione (non semplificazione, ma formazione), il sogno sta all’eros come la vigilia all’osceno.

Per Bataille l’orgia (il traboccamento, lo sconfinamento) si definisce come crollo. Non vedo come si possa crollare dal sogno, cioè come si possa de-lirarsi attraverso l’eros. L’annullamento violento di ciò che si è lo vedo nella vigilia che passa, attraverso la giustapposizione degli sguardi e dei corpi nell’osceno, al nulla che abolisce la coscienza. Il sogno, il connettore tra il corpo individuale e la forma mentale universale, non può averci nulla a che fare: è eros, socialità, cultura, corpo nel senso del suo dimezzamento o squartamento indolore e inapparente.

14

Ma a chi può ancora interessare l’eros, questo verbum ingrommato di consolazione, pregiudicato da cento restaurazioni immaginative, cioè imitative? E chi può ancora disconoscere l’osceno, l’abbattimento del desiderio dalla coscienza all’inesistenza, il dialogo biologicamente concepito per abortire nell’urlo che vuole la solitudine di sé, come un Dio che non conosce adorazione?

Scrostando le parole dall’unzione abitudinaria, si potrà sostenere l’osceno come un ritorno di pietà.

Ou-skené, ciò che non ha dimora, ciò che rimane esposto allo sguardo alzato dall’uomo. Bada, non è ou-tópos, non luogo, ma nudità statutaria, esposizione, prostituzione.

Skías ónar ánthropos, l’uomo è il sogno di un’ombra, scriveva Pindaro: ma appartiene all’ombra, a ciò che è proiezione d’altro, il sognare, l’erotizzare il mondo, procedere alla ciliazione della visione: per cui la vigilanza sull’osceno è uno spegnimento dello sguardo sulla percezione della distanza.

Un iperafroditismo? Nella statua di Afrodite (copia adrianea dell’originale greco del IV secolo a. C.) ritrovata a Santa Maria di Capua Vetere e custodita nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli il capo della dea inclinato verso l’asse della spalla, vibrazioni lineari di bianco sul bianco, mi suggerisce il ritorno dallo sguardo sull’osceno, una malinconia atragica e vigile che attende la dissoluzione del corpo, della dimora, per annullarsi nell’oscenità, mentre l’eros è l’ombra di un sogno.

In una scena di Mishima, il film di Paul Schrader, l’amante applica uno specchio al torace dell’amato riflettendovi i propri seni, e dice: questo è il tuo petto.

Sulla carne perlacea e compatta dell’amato, l’immagine liquida, tremula, dei seni riverberati dell’amante è chirurgicamente ritagliata dai limiti geometrici dello specchio, dal netto contorno dell’artefatto come la sutura limpida di una ferita esangue. Il corpo possiede così un’ombra inorganica sulla sua distensione bianca; la spuma dell’immagine riflessa denuda, nella delimitazione del profilo materiale dello specchio, il claustro simbolico del desiderio.

Sullo specchio che rinfresca il petto dell’amato respira, senza appannarlo, Antéros l’Osceno, l’agennitos, il non nato, il vile.

Tra il sogno del dormiente / E il delirio del sovrano / La distanza è più corta / Della lunghezza della spranga.

Tra il sonno dell’Amato e la vigilia dell’Amante, invece, tutta la vastità del desiderio morto, pornografico, voto come il volo d’un uccello su un’Auschwitz del corpo.  

Il sonno, e non il sogno, come libertà dalla mente, e la vigilia, la stessa e opposta forza inerte: Afrodite anterotica, una Pietà artica, metrica, sulla nascita.

  

                                                                                                                                                                                                                                                                                                 <>