Approfondimenti
Trova’ pasturella IV
Uso l’incavo delle mani come posacenere. Sempre meglio che usarlo come specchio. I frantumi di un qualche specchio li raccolgo tra la cenere, in forma di lacrime.
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Correggo Simone de Beauvoir: nelle lacrime non indugia una speranza, ma si affretta un non ricordo. Correggo Italo Svevo: non è la storia del dolore a esprimere le lacrime (è il pianto che è espresso dalla storia del dolore), ma le lacrime, del dolore, esprimono il vacillare. Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt. Il dolore è un barcollìo della coscienza. La lacrima è la mutilazione della frase, quos ego… la mano portata sugli occhi per asciugarsi le lacrime è il sed motos praestat componere fluctus. Io non sono così perfido da fingere di risparmiarti una sola lacrima, oh Rostand, ma io non sono così generoso da risparmiarti una sola lacrima, oh Rostand. E correggo Cioran: una lacrima non ha radici più profonde di un sorriso, al sorriso è radice profonda, e il sorriso è denudamento della lacrima, il chiuderle il cammino sul muro delle labbra. Io non piango, lacrimo. Nel pianto c’è uno stile, ma nella lacrima, al contrario, c’è la verità. Ma non sono l’amante delle lacrime, ne sono il ruffiano. Non vi è al mondo che una forma, la forma della lacrima. La forma senza forma della lacrima. Il dolore senza dolore delle lacrime senza pianto. Oppongo le lacrime al pianto. La lacrima è la forma dell’informe. Il pianto è l’informe della forma. La lacrima è la balbuzie che è il grido, il pianto è lo studio (studeo, desidero, e quindi ho coscienza) frastico del grido. Il pianto vuole una prefica al giusto prezzo. La lacrima vuole un Giuda, né giustizia né prezzo. Ogni lacrima vigila il cadavere di un concetto. Ogni lacrima è giardino e delizia del vano. Ma larme, Mallarmé. J’ai méprisé l’horreur lucide d’une larme. Ho disprezzato l’orrore lucido di una lacrima. Horreo, tremo di freddo, e disprezzo quanto il tremore chiarisce, deprezzo la sua verità al suo non-ricordo. Rovesciando Eliot, those are eyes that were his pearls.
Ho visto e rivisto la cattura di Gaddafi, registrata dai cellulari, l’ho visto per un istante portarsi la mano sugli occhi per asciugarsi le lacrime. J’ai méprisé l’horreur lucide d’une larme.
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Ho voglia di urlare come un maiale accoltellato, ma per non turbare la quiete dei vicini mi limito a bere. L’alba è ridicolmente tragica perché necessariamente libera. Del sonno. Un sonno che sbavi la sua onda fino alla riva della notte successiva. E poi la ricarichi, infinitamente, come un mare di buio che mi mantenga affogato nel suo ventre. Sul tavolo il posacenere è semivuoto, i mozziconi torturati dei sigari non l’hanno mai centrato, riposano sulla tela cerata rossa. Il rosso non ha pietà di me, né io di lui, l’azzurro l’ha sempre avuta. L’azzurro della coperta, è la fede con cui l’oblio sorride alle mie mani rosse. Ho preso a pugni il muro e mi succhio le nocche ferite. Ho scoperto che sbattere i pugni sul muro è meno doloroso che parlarci. Mi metto addosso qualcosa e scendo in strada. Deambulo nella vita come una puttana in un mondo senza marciapiedi, Cioran dixit.
Sono le sei di mattina. Nella piazza, sdraiati in un angolo, sopra un materasso, due tossicodipendenti s’infilano la siringa nel braccio. La Chiesa di Sant’Anna è chiusa, l’ho sempre vista chiusa anche ad altre ore del giorno, ma non ci entrerei comunque. Non entro quasi più nelle chiese, mi piace osservarle da fuori, girargli intorno, accarezzarne la pietra, rimanere all’oscuro di quanto vi è dentro. Io le chiese le umanizzo. E come con gli uomini, la faccia mi basta. L’asfalto è umido, sono passati da poco gli operai del comune con gli idranti. Il desiderio è una moneta luccicante che mi compra, e Dio è come un cadavere che è mezzo di qua, e mezzo non è di là. Con il denaro io do ciò che non ho. Euridice esce da un androne, mangiucchia un panino. È un riflesso bianco sulla lenta ondata grigia della piazza. Porto il mio nome come uno sputo in faccia.
Rovinarmi è la mia sola forma di amarmi, e ancora non ci sono del tutto riuscito. Non c’è nulla come soccombere alla vendetta del desiderio ripagato dal nulla. Io ho sempre restituito ciò che non mi fu mai dato. Muovo il mio giocattolo all’ombra di un impiccato che oscilla come il mio giocattolo.
Una mano stringe una mano. Sono mie entrambe. Mi bruciano le dita sul niente. Come posso non credere in Euridice, se non c’è? Do i numeri, Nerina, ma non contare su di me. Pronuncio una parola, e l’ascolto annegare nel mattino, e non muovo un dito per trarre a riva il suo cadavere, non muovo un dito per trarre il suo cadavere alla terra della mia bocca. Ho voglia di bere. La solitudine è la condizione ineludibile per bere ed amare. A chi la vita fa schifo non gli viene in mente di conversare: si ubriaca, si droga o si fa seghe, cioè monologa, come faccio io. Lo schifo è come mi godo la vita. Scrivo sempre in uno stato d’ebbrezza, provocata dall’alcool e/o dalla tristezza. La tristezza m’inebria, più dell’eroina. Quando mi passa, non ricordo più quello che ho scritto. Dopo un po’ vado a rileggerlo e non mi ci riconosco, che figata. Non m’interessa il costume nazionale. Sono un nudista apolide. Io sono morto da quando avevo vent’anni. C`è chi vent’anni non li ha mai avuti, è nato morto, per questo è sopravvissuto. Che la vita sia una merda è dovuto al fatto che non sono uno stronzo. Voglio Circe, voglio Calipso, voglio Briseide, voglio Pentesilea. Non voglio me stesso. Spargere il seme sul pavimento come variazione sulla lacrima. La lacrima come variazione sulla morte. Lo so, chi come me va a Madonne, si deve accontentare di una troia, e grazie. Ho una mano di qua, una mano di là, e in mezzo non c’ho niente. L’orgasmo toglie il respiro. Poi si torna a respirare, ma è da cafoni. Gli erotisti mi fanno schifo. Tutti attenti al dovere del loro piacere. Nei miei orgasmi non ho alcun senso del dovere e sono totalmente disattento a ciò che io sono. L’eros è scherzo, e lo scherzo è il Bignami del gioco. Memorizzano due tre cosette, e via. A me interessa l’Anteros. Io gioco, e dimentico tutto. C’è chi ama e c’è chi dialoga. Io amo. Tutto ciò che non ho lo terrò solo per me. Segnati questo, Nerina, che: a) l’’eros è immaginazione di potere, il porno è disimmaginazione di volontà. b) chi sa disimmaginare non disimmagina come sa, ma come non sa. c) il porno è la maschera estrema, la maschera senza scena. Ob scaenam Virginem. d) la notte è la schiena della verità. e) come la bonaccia il mare, il volto ferma il corpo. f) la solitudine di Anteros con se stesso è nell’Anticristo la perdita di se stesso: al paganesimo i vangeli hanno portato la grazia delle proprie pagine in cenere. g) Anteros non è, come nella classicità, Deus Ultor, ma Deus.
Il tedio è il varco tra l’Eros, l’amore della volontà, e il Porno, l’amore dell’abbandono. Tra Eros e Porno, l’orrore, che è il tedio vissuto con passione, è un muro. La Grazia è lebbra per la Vergine. M’interessa il povero di spirito. Lo spirito del povero, no. La dis-Grazia è lo stupor-stupro in cui la Vergine è mancando a se stessa. Salve, Regina. Madre di una, di una, discordia. Mito, pochezza, potenza. Nostra. Dio è la nolontà che manca all’uomo. È il gioco che manca allo scherzo.Chi attraversa indenne la carne è un cretino. Cioè un santo. Nella prostituzione (pro-statuere, mettere davanti) opera una duplice frontalità: quella cieca, oggetto a oggetto, dell’amante verso l’amata (frontalità edificata dal denaro), e quella, su amante e amata, esposta dallo sguardo di un Terzo. Il Terzo, chi o cosa sia non so, è pausarius, è soggetto. Ciò che unisce, dividendoli, l’amante e l’amata, è un Terzo. Dopo l’uno, prima del due, c’è il tre. Ho un filo diretto con Dio: l’ateismo. Il mio ateismo non nega Dio. Osserva come Dio mi si nega. Dio ama i traditori, e tradisce chi ama.
Il ritmo è la profezia (e perciò l’utopia) della cancellazione del linguaggio. Ascolto e pensiero sono incompatibili, come la bellezza, che è l’aborto della realtà, è irriducibile all’essere che la imprigiona. Il ritmo è un luogo decoroso dove lasciar morire le idee. Chi vuole veicolare idee si dedichi alla pubblicità, che è il cesso in cui gli è conveniente vivere. Il ritmo, non testimoniando , è irresponsabile. Martyréô, testimoniare, e asserire, quindi rispondere, è un atto dell’io, ma l’io non è ammesso all’assenza che costituisce il ritmo. Preferisco la morte alla responsabilità (cioè, alla risposta). Il muro è come Dio: gli parlo e non risponde, e per questo lo amo. Mi è chiara una sola cosa: devo distruggere ogni specchio. Io sono un vampiro, per cui non c’è specchio che lo rifletta. Sono un Narciso che ha conosciuto Eco. Euridice è lo specchio lasciato vuoto dallo sguardo di Orfeo, Euridice è suono senza immagine.
Mi dicono che non devo accostare il termine troia al nome di una qualsiasi Santa. Sarebbe sgarbato. Ecco, una maniera garbata per dire che è volgare. Ma, a parte che seeking Virginity, May find it in a harlot lo diceva William Blake, non è solo questo. Io ho in me un “descort”, un disaccordo. Il descort è un componimento poetico medievale, della letteratura provenzale, caratterizzato da un polimorfismo metrico, da rime irregolari, Raimbaut di Vaqueras scrisse “Ara quan vei verdejar” utilizzando per ogni cobla, per ogni strofa, una lingua differente, cinque lingue per una poesia. Il descort si rende manifesto anche nel contrasto tra la disperazione del testo e la musica che si eleva allegra. Io ho in me un disaccordo, una specie di pausa nel vedere, un’interruzione del flusso del vedere. C’è un poeta giapponese del quindicesimo secolo, si chiama Ikkyu Sojun. Ikkyu vuol dire pausa. Io sono un ingenuo. “Un ingenuo recita una poesia davanti alla porta di una casa di piacere e poi se ne va”: “Una ragazza del postribolo non ha pensiero, ma ha pensiero. Un poeta si eccede in versi, così come eccede il suo eccesso di desiderio. Dopo una lunga pioggia, schiarite ad occidente, e una canzone all’imbrunire. Bellissimo, con molto sentimento, l’uomo continua a recitare appoggiato alla porta”. Una ragazza del postribolo non ha pensiero, ma ha pensiero. Vi è un descort, un disaccordo, un contrasto tra l’atteggiamento Zen della prostituta, pensare senza pensare, udire senza udire, vedere senza vedere, sentire senza sentire, e quello dell’amante che si eccede nel desiderio. Ikkyu Sojun ha scritto Poesie di un monaco libertino, e dire monaco libertino non è forse come dire madonna troia? Dove la Madonna è la ragazza del postribolo che non ha pensiero, ma ha pensiero, e la troia è il poeta nel suo desiderio.
La vigilia è il sogno del tempo, il sonno è la vigilia dell’assenza. Della sofferenza: Cristo ne è il sogno, Dio il sonno, io la vigilia. La vigilia ha fame del sonno, il sogno ha solo fame di se stesso. La vigilia concentra il mondo nell’io. Il sogno l’io lo diluisce nel mondo. Nel sonno non ci sono né l’io né il mondo, ma solo l’immensa potenza senz’atto dell’Anteros, la sconfinata oscenità dell’amore dell’amore. La vigilia concepisce il silenzio, il sogno ne è la melodia. Il sonno lo grida.
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