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Trova’ pasturella III
Nel’appartamento a Sant´Anna almeno ho una terrazza che dà sulla piazza. A una distanza di pochi metri vedo di profilo la statua di un santo che sovrasta la facciata della chiesa. Ho davanti Palazzo Gangi. La piazza ora è deserta, i lampioni sono occhi spalancati su di me.
Ho fatto un sogno. Ero il Cristo in una Pietà. La Pietà non aveva profondità, come in un’icona, o era di pietra, come in Michelangelo. Il sonno elimina la cronaca. Il sogno la reintroduce, ma almeno è sgrammaticata.
Ho in mano la Commedia: “per ch’io, che la ragione aperta e piana / sovra le mie quistioni avea ricolta, / stava com’om che sonnolento vana”. Un buon colpo di sonno di fronte alla luminosità e imponenza di libertà e amore. È il Dante viator la bella addormentata: il Dante agens, cioè la persona, il phersu, la maschera che insuffla l’ossigeno della falsità al viso funerario dell’auctor (di chi vuole supporsi auctor). E libertà e amore crollano in una balbuzie asfittica, nell’oscurità palpitante del depensare: “e ‘l pensamento in sogno trasmutai”.
Ma l’auctor, appunto, censura il sonno e ne fa sogno: farà, nel successivo canto del Purgatorio, della femmina balba (“ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, / con le man monche, e di colore scialba”), un corretto sogno senza sonno. Un sogno che vigila l’abisso e la nudità dalle catene del linguaggio. Di modo che non “lo sguardo mio le facea scorta / la lingua…”, ma la lingua mia mi facea scorto / lo sguardo…, la maschera rotola nella polvere e il viso crea il mondo irrespirabile che l’ha creato.
‘It was the mask engaged your mind, / And after set your heart to beat, / Not what’s behind’, scrisse William B. Yeats. Cioè la lingua, la metafora, ciò che sta impropriamente per qualcos’altro in virtù di somiglianza, è la ferita che è verità della ferita, verità dell’assenza e assenza della verità, femmina balba, Cristo celaniano, che “se parlasse di questo / tempo, / dovrebbe / solo balbettare e balbettare…”, come Santo Artaud, “kohan / taver / tensur / purtan /, i fonemi della coscienza attonita, come sulla vetta paradisiaca, “a l’alta fantasia qui mancò possa”.
Non giochiamo, siamo giocattoli. E la lingua è il gioco che manca allo scherzo (alla volontà) dell’auctor: l’espressione è un destino, mentre la volontà di esprimere è uno scherzo di cattivo gusto: possiamo voler dire, ma ciò che in realtà dice è, eventualmente, un dover dire. La lingua è la patria, e in die Fremde der Heimat, in parole di Celan, nell’estraneità della patria, vegliamo la ferita che la metafora indica dall’essenza delle cose: o amanti dei bambini, cercate altri giocattoli. La lingua non è un balocco, è il carcere. E per lingua, ovviamente, intendo ogni struttura di senso, di gusto, di olfatto, di udito, di vista e di tatto.
Scrisse Roland Barthes che “la lingua, come esecuzione di ogni linguaggio, non è né reazionaria, né progressista, è semplicemente fascista, giacché il fascismo non consiste nella proibizione di dire, bensí nell’obbligo di dire”. E il canone della lingua, kanôn in greco: canna, legge, frontiera, limite.
Così la libertà, o la volontà, perse imponenza e luce, acquisite humilitas, humus, impugnata, in definitiva, la humanitas, resistono, denudate, nell’avvertenza dantesca del Canto IV dell’Inferno: parlando cose che il tacere è bello, la libertà di non dire, la figura della non figura, il bianco della disimmaginazione (la Entbildung di Meister Eckhart). Il bianco di un sonno senza sogno (Il sogno è una forma della vigilia, possiede un cogito (vi è una ragione del sogno, una razón del sueño, che genera spirito di gravità), e come la vigilia rapisce la nostra assenza: formato, come scrive Paul Valery, per qualcun altro dormiente, come se, nel corso della notte –nel corso del sonno-, si sbagliasse di assente). Da un lembo di terra, dalla costa che apre gli spazi di una valle maledetta di parole e di un mare non detto d’infinitesima libertà (infinitamente grande perché infinitamente piccola), tacere è bello, parlando.
L’uomo è il sogno di un’ombra. E se, meno di un uomo, fortunatamente meno di un uomo –assenza del Dio-, io fossi solo il sonno di un’ombra? Una femmina balba senza una volontà di vedere che rattristi lo sguardo che la vede (ogni volontà di vedere rattrista lo sguardo) e ne faccia scorta la lingua: e una femmina balba senza guida spirituale, senza ordinatore, senza Virgilio che ne liberi i miasmi del ventre. O con un Virgilio contagiato dalla sua balbuzie, maldicente, quasi non dicente. Essere lanzengiers, malparlieri, provati alla nudità del precipizio dell’abolizione dell’Io, l’esag del sonno, fin’amor.
Lo scrisse Gugliemo d’Aquitania: “Una poesia farò di puro nulla: / non sopra me né sopra gli altri, / neppur d’amore e di gioventù, / e di null’altro, / ch’anzi fu scritta mentre dormivo / sopra un cavallo”, qu’enans fo trobatz en durmen / sus un chivau.
Nota Giorgio Agamben, in “Idea della prosa”: “Il cavallo, su cui viaggia il poeta, è, secondo un’antica tradizione esegetica dell’Apocalisse giovannea, l’elemento sonoro e vocale del linguaggio. Commentando Ap. 19.11, in cui il logos è descritto come un cavaliere ‘fedele e verace’ che cavalca un cavallo bianco, Origene spiega che il cavallo è la voce, la parola come proferimento sonoro, che ‘corre con più slancio e rapidità di qualsiasi destriero’ e che solo il logos rende intellegibile e chiara”. Ma in Guglielmo d’Aquitania al logos subentra il sonno. In Christina Mirabilis la catalessi.
A voce, come a Inferno, a Purgatorio e a Paradiso, si può andare, da essi tornare, come Dante, e prima ancora Christina Mirabilis, balbi, guerci, monchi: assonnati. Stava com’om che sonnolento vana. A l’alta fantasia qui mancò possa. Parlando cose che’l tacere è bello. Cosa di più, e di meno?
Il lógos occidentale è concatenazione di significati. L’aksara, in sanscrito il non fluente, è la sillaba, una vibrazione irriducibile, anteriore al significato. “Ah tu, poema che non è poema / cadavere delle mie labbra / ombra crudele dove non c’è l’uomo / bensì il vento che sussurra / all’odio la tempesta del silenzio / e il pallido onore delle sillabe / 0h animale immortale, oh tu poema” (Leopoldo María Panero). Ah, oh. Quando, nella mitologia indiana, la Grande Sillaba è identificata con un suono, questo è om, un’interiezione. Oh, ah. Ed il verso è sempre la misurazione, infinitamente ripetuta, del limbo in cui un poeta offre alla cancellazione la propria figura e il proprio significato. Orfeo ritorna sui suoi passi, e misura la sua cancellazione, la perdita di Euridice. Edipo e Tiresia sono entrambi ciechi e entrambi zoppi: i loro bastoni battono il ritmo giambico in cui è dissolto il volto. Tiresia vede perché è cieco, Edipo è cieco perché vide. Entrambi sono il battere e il levare del piede e del bastone. Son di più, e di meno.
Io devo pronunciare:
Per. Ch’ìo. Che. La. Ra. Giò. Nea. Per. Tae. Pià. Na.
Sò. Vra. Le. Mie. Qui. Stiò. Nia. Vea. Ri. Còl. Ta.
Sta. Va. Com. Òm. Che. Sòn. No. Len. To. Và. Na.
Nella poesia, scritta e visuale, spariscono i significati, il ritmo e il suono sono stutate del senso, non è vero ciò che dice Valery (“il verso poetico è un’esitazione tra suono e senso”), il suono e il ritmo sono lo spegnimento, il nirvana del senso: il logos lascia la traccia di un’ombra sulla mente incantata, sull’abbandono al sonno in cui sparisce l’autore, scompaiono tutte le idee: libertà lascia luogo alla devozione, e lo stesso vaneggiare (il sogno) lascia luogo al tacere di un vuoto attonito. E nell’attonito vuoto che, indicibile, un puro nulla, dreit nien, accompagna la cadenza del cavallo di Guglielmo d’Aquitania.
Farai un vers, pos mi sonelh. Farò un verso perché sonnecchio. E ho fatto un verso, e ora ho sonno. E l’accidia, la nolontà a essere, è il premio per la più immane predisposizione di volontà che fa dell’amore il suo svanire, e lo svanire di ogni volontà. Tant la fotei com auziretz: / cent e quatrevintz e ueir vetz, / que a pauc no ‘i rompei mos corretz / e mos arnes. Né per l’amore, né per la libertà, vi è itinerarium mentis in Deum. Vi è invece il percorso di Dio (che è l’assenza) nell’umanità, un Cristo devastatore d’uomo: un Cristo che torna Dio: come una parola pronunciata nel verso torna al suo tacere, come un’immagine formata dallo scatto torna al suo buio, tacere e buio belli, nel suono-sonno che gelidamente li ama.
Trattando le ombre come cosa salda, Nerina.
Giro tra i banchi del mercato, al Capo. Mi astraggo, mi viene naturale, dalla vociferazione dei venditori e dei compratori. Per me esistono solo i rossi dei pomodori e delle carni e dei tranci di tonno, il porpora marrone delle melanzane, il violetto di certi cavolfiori, il grigioazzurroargento dei branzini e delle orate, il verde del basilico. E, soprattutto, la loro disposizione e disponibilità. Il loro essere gettati dagli occhi e dalle mani dei venditori agli occhi e alle mani dei compratori. C’è chi ha definito i gamberi e le vongole come esseri incompiuti se lontani dalla bocca umana. Io invece ne vedo il mistero in questo loro precario riposo sui banchi del mercato. Dalla chair alla viande, ma prima del consumo, in una sospensione d’essere. Del resto, ho sempre pensato alle patate come tema dei Mangiatori di patate di Van Gogh, alle uova come ragione della Vecchia che frigge uova di Velazquez, e alla ciotola buia come cuore dei Due vecchi che mangiano di Goya. Vorrei che i mercati restassero aperti di notte, ma proibiti alla compravendita, i banchi pieni di cibo esposto per la sola visione del suo limbo da parte di insonni religiosamente muti come me.
In un vicolo ci sono una donna anziana e due più giovani, le segue a distanza un’altra ragazza con sindrome di Down che le chiama lamentosamente. Una delle donne giovani la insulta, si scaglia contro di lei e la caccia a spintoni in fondo al vicolo. Spariscono. Poi la ragazza che insultava riappare, risale il vicolo e alla vista delle altre due donne alza le mani in segno di vittoria.
In un cortile interno di una casa c’è una palma altissima. Gli alberi mi piacciono sopra ogni cosa. Dove vivo, spesso faccio un sentiero che fiancheggia i binari della linea ferroviaria e porta al mare. Sull’altro fianco ulivi e vigne. C’è un albero isolato, gli ho dato il nome di Prometeo. Ha le foglie velenose, ma basta non mangiarle. Quando incontro un bell’albero respiro in una polla di luce. La faró poi rotolare e poco a poco la consumerò per tutta l’opacità che mi separa da casa.
continua >>>
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