Approfondimenti
Trova’ pasturella V
All’Ever Always, un internet café nei pressi del Museo Archeologico. La modella non si trova. Spaventa la nudità. Ma la nudità è impossibile. Ahia! Ché s’anco ‘l duplice stamore / spoglio si fosse delle streghe vesti / che? come? disvestir la pelle ‘l nudo / de ‘l nudo e de la pelle ‘n l’infinir. Al tavolo di fronte al mio una ragazza magrissima, anoressica?, succhia da una cannuccia una spremuta d’arancia. Ha al collo un nastrino di cuoio da cui pende uno zaffiro. La immagino nuda, con le ossa del torace marcate sulla pelle. Una nudità sporca, schieleana. Lo sporco luminoso del mio desiderio.
Euridice smentisce il topos della volubilità femminile. Se ne sta ferma, irremovibile, nel mezzo dell’inferno, ci sta solo per Orfeo: gli stronzi qualunque non c’hanno le palle per andarla a prendere e lasciarla lí, come in un gioco infantile in cui vince chi si distrae dal gioco e dalla vittoria. Perché ad Orfeo si proibisce lo sguardo su Euridice? Perché, violando il divieto, Orfeo possa liberarla dalla propria speranza. Nerina, pensare Euridice è morirne. Darle forma in parole e immagini è infierire sul cadavere. O entra in testa questo, o la testa la si può seppellire in un selfie, e facciamo prima.
Non faccio altra cosa che iniziare un gesto o una frase e interromperli. Come se il solo iniziarli contenesse il loro compimento e l’interromperli ne impedisse l’agonia dell’espressione. Non nominare il nome mio se non invano. Il vano è il giardino delle mie notti, il nome l’alba che le ha precedute.
In un vicolo dietro il Teatro Massimo. La strada è in salita, in cima al dosso appare, come sorgendo lentamente dall’asfalto, prima la testa, poi il tronco e la figura intera di un uomo negro che corre, saltella e gira su stesso, e tira pugni a vuoto come nell’allenamento di un pugile: le braccia, piegate a proteggere il torace e il volto, si allungano alternativamente come lame di coltelli a scatto e affondano nell’aria.
Incastrata dentro un muro grigio vedo l’insegna di un albergo malfamato. Costeggio il muro, volto l’angolo, appoggio la mano sulla porta della pensione ed entro. Prendo una camera. Non so cos’ho. Ogni tanto mi prende questa mania di ficcarmi senza motivo in luoghi sordidi e malauguranti. Mi stendo sul letto e immagino di vivere una storia che ho scritto per un progetto di serie web. In una camera d’albergo come questa un uomo, adesso sono io, e una donna sono distesi sul letto. La donna gli tocca, mi tocca lentamente il viso e il petto con la punta delle dita. Non reagisco, solo guardo malinconicamente il suo viso. La donna, nuda, le labbra perfettamente dipinte di nero, si alza dal letto e si avvicina a un grande specchio, riflette la sua intera figura in esso. Sempre fissandosi nello specchio, dice: “Mi piace la tua tristezza. Gli allegri sono feroci. Tu non prendi mai niente, nemmeno me. Se anche ti sbracci, lo fai con cautela. Ti dimeni con attenzione per non rompere niente”. Mi alzo a fatica dal letto. Rimago in piedi, fissando la schiena della donna. Dice: “Non hai ferocia. La ferocia è una cosa piccola e letale, come un virus. È come l’angostura nei coktail. Ne metti due gocce nella tristezza, e la tristezza diventa allegria”. Si passa la mano sulla bocca, rompendo le linee perfette del rossetto sulle labbra e trascinando il nero sul mento e sulle guance. Prosegue: “Il riso di un bambino per aver salvato un uccellino caduto dal nido e il riso del medesimo bambino mentre versa acqua bollente su un formicaio: non vi è meno ferocia nei dentini bianchi che splendono nel primo caso che nel secondo”. Si gira verso di me, che sto fissando, come perduto duetro un pensiero confuso, le immagini di me stesso e di lei nello specchio. Con un leggero e malinconico sorriso mi dice: “Tu non mi prenderai. Non mi bacerai. Non mi sfiorerai nemmeno. Uscirò da questa stanza con sulla faccia questi segni neri, come se fossi stata presa a morsi dalla tua passione. Ma non lo avrai fatto, perché non puoi che mantenere separate tristezza e ferocia”. Si riveste con lentezza. Una volta rivestita, mi si avvicina. Per tutto il tempo non le ho tolto gli occhi di dosso, mi prende con delicatezza le mani e se le porta alle labbra. Le bacia sul palmo e sul dorso, lasciandovi tracce di rossetto nero. La donna si stacca da me che allungo una mano verso di lei, ma ormai mi dà le spalle, se ne va verso la porta.
Sono disteso sul letto, nella camera d’albergo. Mi sono appena svegliato. Ho gli occhi fissi su una macchia del soffitto. Poi li porto sulla finestra aperta, da cui proviene una luce intermittente. Dalla camera attigua proviene un respiro affannoso. Si fa sempre più distinto. Non si capisce se siano gemiti di piacere o rantoli di sofferenza o di morte. Stringo il cuscino. I gemiti proseguono. Appoggio la testa alla parete, premo sempre più forte la testa sulla parete.
Guardo fuori dalla finestra, nel cortile interno all’edificio. Una scala a chiocciola, di legno, scende fino alla base di una palma altissima. I rami della palma sono mossi da un piccolo corpo scuro. Osservo a lungo quel fremito da vegetale ad animale, o viceversa. In realtà vedo ben poco, più che altro percepisco il contatto, lo sfioramento. I rami della palma balenano investiti dalla luce intermittente di un neon. Una luce rossastra li sfigura, e ne immagino il verde che riposa nell’ombra elettrica. Vado a sedermi, estraendo da sotto un tavolo una sedia. Poi mi rialzo e, chiudo a metà la finestra e appoggio la fronte sul vetro offuscato dalla polvere. La fronte contro il vetro, le palpebre adesso crollate, cerco di prolungare quel fremito di palma e uccello nel mio sangue. Sento in me una calma strana, come una mano aperta non si sa a che cosa. Porto l’indice sul vetro e disegno rozzamente sulla polvere un uccello. Si capisce che è un uccello, credo, per le ali. Le ali sono comprensibili, il resto no.
Un giorno una gazza visitò la terrazza di casa mia. Si portò via un nastro argentato. Misi sul davanzale della finestra degli altri oggetti luccicanti, sperando tornasse. Ma non tornò.
Le pareti della stanza gocciolano buio sulle vampate proiettate dal neon. Il tetto sembra curvarsi formando una nicchia d’ombra sopra di me, un buio palpabile, pesante. Parlarti mentre non mi ascolti, e guardarti mentre mi sei nascosta. L’inferno è questo? È questo pregare?
Mi rivesto ed esco quasi di corsa, verso l’appartamento di Sant’Anna. Sul portone d’ingresso un uomo sta armeggiando con la chiave inserita nella serratura. Mi dice che si è incastrata e non riesce a estrarla. Mi chiede di provarci io. Come mi chiedesse un miracolo. Se non ce la fa lui, come posso farcela io? Prendo la chiave tra l’indice e il pollice, la tiro lievemente ed esce senza nessun problema. Mi guarda con gli occhi grati e quasi di ammirati. Mi sta prendendo in giro?
C’è chi si occupa di Euridice e chi ne è occupato. Ai primi non ho niente da dire. Ai secondi nemmeno, ma non glielo dico in un modo del tutto differente. Orfeo disimmagina Euridice, ne fa buio, la rende infinita. Infinito finito. Non mostrare ma nascondere. Euridice è l’Aleppo distrutta dei miei occhi. Il cinema, la fotografia, la pittura, non m’interessano se non stuprano l’immagine, se non si accecano. La consolazione dello specchio non fa per me, io sono un vampiro, di me stesso, sono il Signore della notte di me stesso per puro altruismo. La narrazione, che è un flusso di tempo cronologico, è una presa di coscienza attraverso la forma del linguaggio. Ma Euridice è perdita di coscienza, è stupor stupro, non è narrabile, è la perdita del tempo cronologico, dell’azione protesa a un fine esterno, sfiamma nel puro atto senza finalità, nel tempo aión, perde il linguaggio e si mostra disapparendo, nella nudità della forma svanente. Il significato è un sasso in bocca al significante. Io dico che è un morto che si ostina a vivere. Euridice non ha significato. È un segno stupefacente. E basta. Euridice è la corda a cui m’impicco per l’erezione definitiva. E oscillerò, come il sorriso infinito delle onde del mare. Come il riso infinito, delle onde del mare. Euridice dev’essere cieca. L’impotenza del suo sguardo è ciò che rende narrabile Orfeo.
Ho avuto tra le mani Euridice, bella come un pugno di mosche. Euridice dev’essere cieca. L’impotenza del suo sguardo è ciò che rende narrabile Orfeo. Euridice è il femminile contro il donnesco, il mio stupor stupro contro il “conosci te stesso” ruttato nell’uomo pratico da un maschile frocioide. Io sono io, e mi tolgo dalle mie palle. Solo essendo Euridice posso essere Orfeo.
Euridice è pura nudità: il buio lunare della forma gettato sull’abat-jour acceso dell’idea. Euridice è la risposta adeguata allo sguardo stupito-stuprato di Orfeo: il buio. La Trinità di Euridice, Pentesilea e Calipso. Io scrivo di teologia, non di psicologia tardo escrementizia.
Orfeo è Euridice. Quando Orfeo dà le spalle a Euridice, sta riempiendo il desiderio di volontà, è nell’eros. Quando si volta e la guarda, varca il desiderio nel proprio stupor-stupro è nel porno. Porno: cosí colá dove si puote e non si vuole. Per tutto il tempo in cui ha distolto lo sguardo da Euridice, Orfeo ha disprezzato l’amore e la vita, e ha glorificato se stesso e la sua sopravvivenza di zombie. Sii sempre morto in Euridice. Zarathustra sviene quando intuisce l’eterno ritorno dell’identico. Orfeo sceglie di perdersi perdendo Euridice per non ritrovare se stesso identico nell’inferno del ritorno dall’inferno di Euridice. Saper scrivere una parola: fine. Euridice morendo divenne altra cosa.
Se tu fossi qui con me, ti cercherei in capo al mondo. Euridice dorme, e Orfeo la guarda. Alle spalle ha l’inferno. L’amore ha lo spazio di una bara. Il secondo corpo non ci sta. In questo deserto notturno che vuole soltanto parole estreme e poi il silenzio: io sono il bacio stanco di una troia.
Euridice dorme il mio sonno. Quando lo spazio si riduce a un corpo, il tempo è alle spalle. La distrazione da ogni concetto è un processo. Nel suo farsi si chiama tristezza, e una volta compiuto si chiama stupore.
Il donnesco è l’opposto del femminile, è l’insinuarsi e l’affermarsi della volontà nel e sull’abbandono. Il donnesco è il sofà del virile. Il maschile è uno stato di comodità, un Io, per il quotidiano degli stronzi e delle stronze. Anzi delle stronze e degli stronzi, scusa, Nerina, la scorrettezza politica. Nella morte si è femminili, o froci. Il frocio è la trasgressione del maschile, cioè gli è subordinato. Il femminile è la dignità del morire liberi da sé. Amo perdutamente l’uno per cento dell’umanità. Il che, più o meno, vuol dire che amo perdutamente 70 milioni di individui. Troppi, lo so. Comunque, perlomeno, in questi 70 milioni non c’è nemmeno un maschio maschile. (I froci sono maschi maschili nella loro subordinazione al virilismo, non ci si confonda). Il femminile è ciò che donne e uomini non riescono a portarsi nel cesso della loro vita. Il femminile è il sovrapensiero del morto. Il femminile è la Madonna che dona a Dio la morte, cioè una carezza a turbare la sua perfezione. Il femminile è l’assenza di mondo che custodisco in me. Come una lacrima è il ricordo di un’amnesia. Io sono il femminile in cui mi assento. Solo nel femminile vi è nudità, e solo nudità è il femminile: oggetto a oggetto, in un amare puro, gli amati senza soggetto. Il soggetto è fuori. Lontano l’imperatore. La donna, al pari dell’uomo, è una figura sociale. Il femminile è fuori dalla società e fuori dal mondo. Quindi è fuori della donna. Il femminile è una disattenzione fatale. Il femminile è la sfigurazione dell’ homo conatus (e son cazzi miei e di nessun altro, sono cioè, davvero, cazzi universali). Il femminile è il miracolo da cui ho bisogno d’essere creduto. Il femminile è un atto desiderante. Ma il desiderio non è un moto a luogo, ma uno stato fuori luogo.
Il virile mi dà nausea. Mi dà nausea il donnesco. La donna ha a che fare con il sociale. Era il contraltare del virile, adesso è il suo completamento. Ci mancava solo dare completezza al vir.
Mi interessa il femminile, che non è un mero dato naturale, ma il suo oltrepassamento. È l’oltrepassamento della vita. È la distrazione, il divertimento, l’errore, nel senso di fallire l’obiettivo fino a smarrirlo del tutto, nel senso di vagare, via dalla linea retta e da qualsiasi linea.
Il femminile è l’abbandono che mi si dà, e a cui mi do. Il femminile non è soltanto un oblio a cui mi offro, ma l’oblio che voglio essere. Non cerco il dato naturale che completi il mio sesso, ma la mia mutazione naturalmente innaturale. Io non desidero l’oggetto femminile se non per esserlo io.
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