Approfondimenti
Trova’ pasturella II
Fumo. Mi svuoto la mente. Va via tutto nei fili di fumo, soprattutto la schizofrenia dei sogni ad occhi aperti. Il fumo non fa parte di nessun santuario, come ogni santità. Nelle pause tra una boccata e l’altra leggo un haiku di Taneda Santôka. Hissori kuraseba misosasai.
È un haiku di difficile traduzione, fatto di sole tre parole. Misosasai, è il nome di un uccello. Hissori, può avere molti significati, ‘senza dire nulla’, ‘senza fare rumore’, ‘senza essere osservato’. E kuraseba, è il condizionale o il temporale del verbo vivere, ‘se si vive’, ‘quando si vive’. Si potrebbe tradurre: Solo quando si vive / una vita che nessuno sa / il canto del misosasai
Il canto del misosasai si può ascoltare solo quando si cessa di essere un rumore dell’esistenza. Io orino sulla neve di questa notte, e il mio calore è ingoiato dal gelo immenso. E se qualcuno pronuncia il mio nome, non è cosa che mi riguardi.
Leggo e traduco Garcilaso de la Vega: Poco a poco il dolore si allontana, / non perché io lo senta meno forte, / il sentire è che smuore, per sentirlo, / che sentito, io sono adesso folle. / Non penso d’esserlo, che follia mi tocchi, / io così orgoglioso di sentirlo, / che non cesserò l’esserlo e il soffrirlo, / se cesso d’esserlo, ragione muore. / Tutto mi impulsa, e ragione e follia; / l’una mi priva di sè, perché mia, / l’altra mi uccide, perché così suo. / Alla gente sembrerà una stronzata / amare questo male che mi distrugge: / ma ce l’ho come mia sola fortuna.
Leggo e traduco Gabriel de Bocángel, in un libricino sbrindellato dalle pagine ingiallite: A un soldato che rimase in piedi per un po’ dopo essere morto: Il tuo cadavere ostinato avverte / che c’è vita morta, sì, ma non vinta, / ché nel tuo coraggio, nella tua vita, / vita guardò, dopo di sè, la morte. / Forza ha il destino, ma tu hai più forza; /
non per un suo colpo la tua sconfitta; / tu contro te stesso lo aiuti, arreso, chi, se non tu, ha il potere di vincerti? / Tu dividesti, istante indivisibile, / il morire e il prostrarti, sempre altero / nel male comune non trovi immagine. / Quanto tu immortale, quanto invincibile / io sentirò che tu, tu fosti vivo, / se il cadavere feroce ora io sento?
Il mio monolocale, al quinto piano di un palazzo decadente in Piazza Sant’Anna, me lo do a bere: nel senso che me lo figuro attraverso l’immagine della camera dell’artista ad Arles, di Van Gogh. Ma in quella fiammeggiavano il rosso della coperta, l’azzurro dei muri, il verde degli alberi alla finestra. Io sono in mezzo al grigio morte. Perlomeno, nella cella del carcere, Schiele aveva un’arancia splendente in mezzo al letto dal colore carogna. Il mio monolocale me lo dò a bere anche nel senso che mi scolo mezza bottiglia di Laphroaig per dimenticare le stoviglie e i piatti pieni d’incrostazioni e il dito di polvere sulle lenzuola, la porta almeno chiude bene e lascia fuori il pulviscolo che galleggia nell’aria per tutte le scale. Troveranno qua dentro il mio cadavere, e nell’atto di morte nel registro civile scriveranno né madre né moglie né figli, come per Lautréamont. Sogni.
Scendo in piazza e me ne vado al Monkey. Un altro nome da aggiungere al mio inferno. Un altro nome del mio inferno è Ianus Pravo. Io mi aggiro tra un bar e il mio nome cercando un angolo riparato in cui togliermi di mezzo. Cerco un muro. Un muro lo può essere anche un gesto. Stanotte, al Monkey, una ragazza balla di fronte al suo uomo. Poi succcede qualcosa, lei si allontana violentemente verso l’uscita, ma si ferma, torna verso l’uomo ricominciando a ballare, ma questa volta in un gesto di sfida. È molto bella, e muove il corpo come un insulto, come un muro. Io tasto con le dita il cerchio umido lasciato sul tavolo dal mio bicchiere. Gli occhi li mantengo sulla ragazza che balla, e intanto disegno immaginariamente sul tavolo, intingendo le dita nel liquido, un corpo di donna. Il volto, i seni, i fianchi, senza guardare ciò che fanno le mie dita. Poi, sempre senza togliere lo sguardo dalla ragazza danzante, cancello immaginariamente l’immaginario disegno con un tratto trasversale. Mi porto alle labbra le dita umide. Mi alzo dal tavolo, pago ed esco dalla bolla di luce del bar. Oltrepasso il rettangolo formato dai tavoli della terrazza e mi immergo nel vuoto della piazza. Delle risa provengono dalla mia sinistra, ma non posso scorgere nessuna figura umana. La poca luna è coperta dalle nuvole in costante movimento, a volte la luce filtra da uno squarcio e vibra negli spazi bui non raggiunti dalla fiamma dei lampioni. La piazza è un muro orizzontale, osservo la pavimentazione, che è il muro dei prostrati, di coloro che pregano, di coloro che ascoltano, il suolo che è il cielo di coloro che pregano. Un muro che la preghiera del passo rende penetrabile, che ti chiede di essere muro tu stesso, che ti offre il riparo di cadervi.
Più tardi, alla Vucciria. Un uomo in piedi davanti a una friggitoria, ha in mano un panino di panelle e crocchè avvolto in carta macchiata d’olio. Fissa un punto all’altro lato della piazzetta, poi sposta nervosamente lo sguardo a sinistra e a destra, e torna al punto osservato inizialmente. Come un cane legato fuori della porta di un supermercato, che attende il ritorno del padrone.
Il padrone arriva e gli passa un sacchetto di plastica in cambio di denaro. L’uomo-cane si rilassa, scarta il panino e se lo mangia in pochi morsi. Gli osservo le labbra inumidite dall’olio fritto, che si fermano, socchiuse, sotto la coppia d’occhi che torna a fissare l’altro lato della piazza. Un padrone per specchio.
Penso alle foto che Nerina mi scatterà. La macchina nelle mani di Nerina è uno specchio. E l’immagine che viene abbracciata da questo specchio è anch’essa uno specchio. E lo specchio è anche una pelle, e la macchina fotografica è una pelle, e l’immagine è una pelle tra queste pelli. E fuori la notte è uno specchio e una pelle. E io vorrei essere fuori da questi specchi e da queste pelli. Vorrei essere fuori da questo abbraccio.
Espormi allo specchio. Nella falsità delle mie vere ferite. Vivendo nella colonia penale della “wound culture“, per dirla con Mark Seltzer. La ferita non è più il segno del sacro o dell’eroismo, ma un’immagine comune, che corrisponde all’apertura quotidiana del corpo. Così, sempre secondo Mark Seltzer, la gente indossa, magari davanti a una camera televisiva, la propria sofferenza come distintivo d’identità o accessorio di moda. Questa è la macchina tritacarne del sociale, di fronte alla quale tacere è bello.
Nella storia dell’Arte, gli autoritratti che recano il segno di una lesione, di un trauma corporeo, sono numerosi. Si potrebbe stilarne un nutrito elenco, a partire dal celebre Homme blessé di Courbet del 1854. Vincent Van Gogh, per esempio, si è autoritratto due volte con l’orecchio fasciato (1889), in seguito all’episodio di autolesione che lo vide protagonista, mentre Ensor ne Il mio ritratto da scheletro (1889), e Munch (L’autoritratto con braccio scheletrico, 1895), si sono immaginati in una situazione ancora più estrema, non solo feriti ma prematuramente trasformati in scheletri, in bilico tra la vita e la morte. Nel Novecento poi vanno segnalati, tra gli altri, gli esempi di Victor Brauner, Frida Kahlo, Antonio Ligabue, Gina Pane, Jo Spence, Matushka, Ana Mendieta, Francesco Clemente, Nan Goldin, Orlan, David Nebreda…
Già, David Nebreda. In molti autoritratti la ferita è un segno immaginario. Per David Nebreda la ferita è una realtà concreta, una pratica che prescinde dalla rappresentazione. David Nebreda è per me Narciso. Narciso è per me il prescindere dalla rappresentazione, sia pure nella rappresentazione, sia pure nella galera, nella cisterna del Battista. Nel mostrarsi di David Nebreda, lacerandosi la carne con un coltello, imbrattandosi di merda, ustionandosi le mani con la fiamma ossidrica, spargendo orina sul letto in cui riposa dalla tortura autoinflittasi, vi è intenzione, volontà, espressione, significanza, identità, spettacolo? Vi è vitalismo e umanesimo (seppure, e più ancora, nell’oltraggio)?
Non vi è arte, poesia, creazione che non riposi nell’abbandono, nell’incidente linguistico, nella forza dei significanti liberati dalla museruola dei significati. Eppure l’inintenzionalità presuppone un intento lucidissimo, l’abbandono è predisposto da una volontà fortissima, lo spensieramento è frutto dell’esasperazione del pensiero. Il difforme che è poesia nasce dal decor della forma, il riposo dell’io dalla estenuazione feroce del soggetto.
David Nebreda si è cancellato dal mondo, si è recluso in una misteriosa abitazione nel centro di Madrid, dedicandosi all’autoflagellazione. Manca la santità per le schegge di luce che respinge da se stesso, attraverso la fotografia, in direzione degli osservanti sociali. Ma non è la santità che sta ricercando. Egli, attraverso una attenta procedura, predispone la stanza del suo orrore, il giardino delle sue e mie delizie (dovrebbero essere di tutti, ma non m’impegno a convincere nessuno), cura l’illuminazione, sceglie gli strumenti, le armi del suo ferimento, la scenografia radicalmente claustrofobica ed ergastolaria, le tecniche, per quanto semplici, della riproduzione fotografica: allestisce lucidamente un progetto di sè e di abbandono di sè, e fin qui tutto è volontà, e identità, dispiegamento dell’Io. Ciò che succede, nel farsi dell’opera e nell’opera realizzata, va oltre tutto ciò: in Nebreda come in qualsiasi vero artista. I significanti proliferano come cancri, l’autore umano non c’è più, non ne è più il soggetto, se non nell’accezione di assoggettato. Abbiamo davanti a noi un corpo esposto a un serissimo dileggio, al poema della sua vulnerabilità, ma non vi è sussulto emotivo, non vi è chiamata all’empatia. Vi è uno ieratismo della carne come “viande”, non certo come “chair”. Oltre l’intenzione, l’opera si erge contro l’osservante che sussulta, si commuove o si indigna davanti alla carne lacerata, arsa o smerdata, semplicemente perché guarda, e lo sguardo è la merda che segna riprovevolmente la bellezza. La merda è semplicemente il segno che lo sguardo lascia sulla bellezza.
Ho le mani unte di panelle, e “Narziss im Endakkord von Flöten” recita lo splendido verso di Georg Trakl, Narciso nell’accordo estremo dei flauti. Di fronte alla morte, in ascolto dell’ultima e prima luce, musica estrema, c’è Narciso. Il mito di Narciso è un mito ambiguo: può significare assenza di coscienza, o, al contrario, coscienza efferata dell’alterità: affollata cella, o, all’opposto, aperto deserto. È comunque la contemplazione attonita di un suicidio. Senza Narciso non c’è poesia, e non c’è vita. La poesia-vita nasce da un tempo di autocontemplazione. E nessuno può saggiare il volto dell’altro, il volto d’altro, se previamente non ha provato il suo proprio volto. Io, come ogni uomo, sono Narciso. Il volto è in prestito, lo sguardo è a credito, e il discorso è il discorso dell’altro, il vedere è il vedere dell’altro. Io, come ogni uomo, sono l’ebreo, sono colui che non possiede nulla che gli appartenga veramente, che non sia dato a credito, prestato, e non sia da restituire, in parole di Paul Celan. “e nello specchio il mio volto non c’è“
“lasciatemi allora baciare quest’astro spento / trapassare lo specchio e arrivare così dove neanche il sospiro è possibile” (Leopoldo María Panero).
Nella riflessione incantata della propria immagine, l’artista, come l’uomo, mette in gioco la propria identità, l’integrità dell’io, che viene posto in questione come enigma, e questa è la critica (la sola autentica critica) all’ideologia dell’individualismo, che afferma la scomparsa dell’altro nell’esaltazione della solidità identitaria dell’ego. Se l’io è reso instabile da uno sguardo simultaneamente feroce e catalettico, si riduce allora a una domanda che non riesce a chiudersi con una risposta, e la cancellatura che abrade l’ego attesta il riconoscimento dell’altro, il riconoscimento d’altro. Mostrare un’incisione sulla pelle è come mostrare un sorriso: esposizione dell’orrore dell’io. Mostrare il proprio dolore è come mostrare il proprio piacere. Anterotismo, fortunatamente. L’erotismo teatralmente dialogante del piacere borghese lo lascio alle guardie del castello identitario.
Ciò che desidero è in me, l’abbondanza mi ha reso indigente. Oh potessi separarmi dal mio corpo. Inaudito desiderio in un amante, vorrei che ciò che amo fosse assente, scrisse Ovidio.
Narciso è l’eroe porno della dissoluzione del corpo. Quanto più guardato, inciso, ucciso, tanto più il corpo dispone la sua assenza al desiderio dell’amante. La storia di Narciso è la storia di un suicidio. Egli si dà la morte per voler baciare, per voler possedere la bellezza. Noli me tangere, dice invece la bellezza. Ma egli in realtà non vuole toccare la perfezione della bellezza. Egli vuol fare la bellezza, vuole imperfettamente fare, perché ogni bellezza il cadavere attraversa / e si purifica nel fiume della morte.
“Era bello Narciso?”, chiese la fonte.
“Chi meglio di te può saperlo”, risposero le oreadi. “Da noi, egli non si fermava mai, sempre ti cercava, per chinarsi sulla tua riva e nello specchio delle tue acque contemplare la propria bellezza”.
E la fonte rispose, “ma io invece lo amavo perché, quando sulla mia riva disteso mi guardava, nello specchio dei suoi occhi ero sempre io a vedere, riflessa, la mia propria bellezza.
Io ho da mostrare, di me stesso, a Nerina la sola ferita che mi importi: la mia nudità. Una ferita vera nel cielo degli occhi falsamente suoi.
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