Interviste
Marco Palladini (III)
a cura di Elisa Audino
Ballata pandemica sembra riprendere i temi affrontati in I virus sognano gli uomini, un romanzo sperimentale del 2021, scritto di getto in pieno lockdown, e a cui è seguito nel 2022 Via memoriae/Via Crucis, Gattomerlino, mentre Rap…presaglia era contenuto in è guasto il giorno e qui torniamo al 2015: una raccolta un po’ singolare questa, con un tono più distensivo, quasi confidenziale, soprattutto quando vai a toccare i temi famigliari, a dimostrare la tua pluridimensionalità. In quella raccolta però il titolo era diverso: Rap rap rap (canzone?)
Il mutamento del titolo è la risposta all’interrogativo del sottotitolo, ossia il sospetto sottotraccia che quel testo fosse potenzialmente una canzone trova conferma nell’esecuzione orale-performativa, in cui si sprigiona l’urlo vocale “raaaaa…presaglia” che ne fa un effettuale brano di spoken music. Contro i puristi della poesia che reputano un testo, una volta licenziato, intoccabile, io credo invece che si possa toccare tutto e anche cambiare a seconda di altre o nuove necessità espressive. Questo ritengo che derivi dalla mia lunga pratica teatrale che mi ha insegnato a modificare e ricombinare i testi drammaturgici in base anche a quella che chiamo la ‘prova-palcoscenico’: se non funziona sulla scena un testo, pure se pensi che sia perfetto, lo devi cambiare. È quello che mi ribadì trentacinque anni fa in una intervista Dario Fo, che era sempre pronto a riscrivere e modificare le battute dei suoi testi, pure canonizzati e pubblicati da molti anni. Ma Fo, nella situazione teatrale-culturale nostrana, è sempre stato divisivo e, si parva licet, anche la mia visione del fare poesia opino che sia divisiva. Del resto, la strofa terminale di Rap…presaglia prima citata: “Io non rappresento, sono qui che mi presento….”, è pressoché un autoritratto che accosterei a Kombat Poetry, il brano finale del mio disco Poetry Music Machine (2012).
Sì, questa è poesia ke spakka
l’animo e la mente
poesia serpente dialettica irridente
e ke divora il kuore
di vetro oscuro del presente.
DA KOMBAT POETRY, Poetry Music Machine
Però, una cosa va chiarita, per lo meno a quanti hanno vissuto appieno la scena rap degli anni Novanta: Rap…presaglia non ha nulla a che vedere con il brano dei 99 Posse.
La somiglianza del titolo assonante è un puro caso: rimango un vecchio rockettaro e non sono neppure un grande ascoltatore dei dischi di musica rap. Da poeta e performer, del rap mi interessa l’energia fono-ritmica che scaturisce dalla sua espressione e forma verbo-musicale. Per quel po’ che conosco, invece, i testi dei rapper, tranne debite e lodevoli eccezioni (come i 99 Posse o gli Assalti Frontali), mi sembrano figli di una sottocultura non di rado ‘machista’ e reazionaria, sottomessa al mercato, alle mode, a un life-style superficiale e vacuo.
Da autore mi ritengo un po’ un vampiro, succhio appunto energia dove posso e poi la modello, la calibro sulle mie possibilità e capacità. Rap…presaglia ha una scansione e un ritmo che rimanda al rap, ma ha una struttura rimica e semantica squisitamente poetica, condita di ironia e autoironia. La ‘rappresaglia’ poetico-verbale è versus il mondo, sì, ma anche contro me stesso.
Io non rappresento, sono qui che mi presento
Con parole pericolose che m’invento e mi spendo
Io non rappresento, io mi rappresento in rime di scontento
E non mi intendo, io mi fraintendo e infine ko mi stendo.
Da RAP…PRESAGLIA, Creando Chaos
Niente esibizioni parolaie muscolari o egotistiche, dunque, ma un colluttare con se medesimi per, infine, mettersi fuori gioco, ovvero pure per mettersi fuori dal gioco. Una dichiarazione di distanza, di ontologica differenza.
Dunque, il suono e la parola poetica. Si tocca un terreno fragile, che alcune volte sfocia nella polemica accesa tra i puristi e chi ama contaminare. Quel che colpisce però è che in altre letterature, penso a Cuba e al son, è del tutto normale che la poesia venga ‘musicata’ o che addirittura nasca con la musica. Anni fa, in altro contesto, Jonathan Bazzi aveva parlato di ‘dittatura della tradizione’. Un freno notevole, la Tra-dizione.
Già lo storico Eric Hobsbawm parlava negli anni ’80 di ‘invenzione della tradizione’. Per me il rifiuto della voce è rifiuto del corpo, perché la voce è corpo, pur se non sappiamo esattamente da che parte del corpo arrivi. Ed ogni voce ha un suo timbro inconfondibile come una impronta digitale e rende l’esecuzione di un testo un atto prezioso, irripetibile e anche emozionante, pure quando non ha una matrice professionale o professionalizzata. Io ho fatto laboratori, ho provato e riprovato, sia in casa che a teatro, per cercare di accordare, con pregi e limiti, la mia voce con contesti sonori anche molto diversi, dal rock al jazz, all’elettronica sia pop che d’avanguardia. Voglio citare, come mi è capitato di fare altre volte, Antonin Artaud: “Se sono poeta o attore non è per scrivere o declamare poesie, ma per viverle. Quando recito una poesia… si tratta della materializzazione corporea di un essere integrale di poesia”. Non potrei dire di meglio.
Corpo-madonna / corpo-suburra / corpo-in carriera
Corpo-selvaggio / corpo-in silenzio / corpo-frontiera
Corpo obeso / corpo-bulimico / corpo-porco
Corpo-copro / corpo-mistico / corpo orco
Corpo-reliquia/ corpo-feticcio / corpo-santo
Corpo-in-croce / corpo-sangue / corpo-pianto
Corpo-diverso / corpo-virus/ corpo-linguaggio
Corpo-di ieri / corpo-cibo/ corpo-saggio
Da BALLATA DEL CORPO, Creando Chaos
La poesia non ha lettori, ma potrebbe avere ascoltatori numerosi, mi hai detto, e hai citato un episodio, successivo all’uscita del tuo cd Trans Kerouac Road (2004). Allora Ezio Nannipieri, il direttore artistico di Musicultura, la più importante manifestazione nazionale della giovane musica d’autore indipendente, ti invitò con il musicista trentino Diego Moser, ad eseguire sul palco dello Sferisterio di Macerata un brano del disco, Oblio di guerre. C’erano 2500 persone e otto telecamere volanti di Rai5.
Mi sembrava di essere al Festival di Sanremo e, sinceramente, mi tremavano le gambe. Invece, andò tutto bene, tutti quegli spettatori ascoltarono in religioso silenzio non una ‘canzonetta’, ma un testo poetico declinato come una chiaroscura ballad elettronica. Alla fine, nei camerini Katia Ricciarelli, direttrice artistica al tempo dello Sferisterio, venne di persona a complimentarsi. È stato sicuramente il momento apicale della mia piccola avventura di performer poetico. Lì ho capito che si potrebbe infrangere il muro dell’indifferenza se ci fossero le occasioni giuste per poterlo fare. E, ad onor del vero, quell’episodio è rimasto isolato, mai più ripetuto. Quindi da un lato c’è una poesia scritta che nella sua generalità rigetta una forma di comunicazione con un pubblico che non sia fatto dagli stessi poeti; dall’altro c’è un mainstream spettacolar-culturale che ignora la poesia in quanto linguaggio elitario, complicato, non adatto ad una larga audience. Io con i miei dischi tengo duro, ma non sono ottimista, da questa situazione credo che in Italia non se ne esca. Altrove, penso allo spoken word performer Kae Tempest in Inghilterra, ci sono situazioni di maggiore apertura. Ci sarebbero, è vero, i poeti slammer come Simone Savogin, sicuramente molto bravo e che va in televisione, ma ho l’impressione che sia percepito più come un fenomeno da baraccone che come un autore rispettabile.
…E così dear Lawrence/Lorenzo, ti sei voltato e dietro le
spalle non c’era più nessuno dei tuoi amici Beat / Un’altra ‘lost
generation’ di poeti e scrittori che come una selvaggia
band alla ricerca di qualcosa che bruciasse insieme linguaggio
febbricitante e vita all’ultimo respiro […]
Da Un secolo di Ferlinghetti (1919/2019), in Via Memoriae/Via Crucis, Gattomerlino, 2022
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