Marco Palladini (II)
a cura di Elisa Audino
Un po’ di tempo fa Saviano ha detto che la letteratura deve essere disturbante, deve dare fastidio. Tu sei riuscito a capire se i tuoi testi, poesia, prosa, teatro, disturbano? Voglio dire, per porre degli interrogativi occorrerebbe riuscire ad attirare chi non la pensa come noi e questa è una cosa sempre più difficile a farsi. Tendiamo a ‘seguire’ chi già ci assomiglia, spostare opinioni diventa complesso. Essere un poeta ‘politico’ diventa complesso.
I miei testi sono disturbanti? Non devo essere io a dirlo. Posso supporre, visti certi attacchi critici che mi sono stati fatti, che un certo mainstream lirico-accademico non li gradisca proprio. Io credo, sicuramente, che la scrittura poetocritica dovrebbe aiutare, sollecitare a pensare, a divergere, ma non credo ad una scrittura didascalica, parenetica, che miri ad ammaestrare o a rendere migliori i lettori. I miei testi opino che in genere risultino urtanti, confliggenti con le visioni conformistiche e narcotizzanti dominanti. Ma non per questo mi reputo uno scrittore ‘politico’. Su questo sono chiaro: per me la politicità della scrittura attiene unicamente al linguaggio. Ogni atto linguistico è, di per sé, politico. Allora un autore deve dotarsi di un linguaggio poetico, di uno stile letterario, di concrezioni espressive alternativi rispetto ai linguaggi cristallizzati e cloroformizzati del potere sia socio-politico che culturale. È nella emulsione materialistica creativa del linguaggio che si dà una politicità oppositiva, non nella elicitazione contenutistica o propagandistica. Ci sono stati e tuttora ci sono (sempre meno, invero) autori che si ergono ad opinion-maker di natura etico-politica, più o meno condivisibile, ma poi generano un’opera del tutto conforme e convenzionale ed allineata con i canoni della tradizione. Ci sono, poi, autori (penso al mio diletto Céline), del tutto criticabili sul piano di certi contenuti politici, ma assolutamente rivoluzionari sul piano del linguaggio. Ecco, si parva licet, è a costoro che faccio personalmente riferimento.
Torniamo all’ultimo lavoro. Creando Chaos è anche il brano d’apertura e sembra quasi voler ricreare un caos primordiale, un big-bang, necessario per poi fare silenzio e ripartire con i testi successivi. Si torna a quella deformazione a cui accennavi.
[…]
Creando chaos
si pensa solo chaos, si produce il chaos,
si ama il chaos, si scopa con il chaos,
si crepa con il chaos
Il demonologo che sul dio-chaos
sogghigna e prospera, lo sa da sempre:
emana dal multiverso chaos
ogni possibile, labirintica verità
e il suo aberrante illimite è in sé
il teurgico mistero dell’eternità
Creando Chaos è nelle mie intenzioni un titolo anfibologico. Il ‘chaos’ è certamente, come tu dici, lo stato primigenio da cui si è generato il ‘cosmos’ (che è sempre, a ben vedere, un ‘caosmos’), ma soprattutto per me il ‘chaos’ è il moto da cui principia la vita che è sempre o quasi sempre un disordine, un gorgo informe, un ‘casino’, un ‘dérèglement des sens’ (Rimbaud dixit). Chaos come vita e vita come chaos, ciò cui allude la quartina finale del testo: “emana dal multiperverso chaos / ogni possibile, labirintica verità / e il suo aberrante illimite è in sé / il teurgico mistero dell’eternità”.
Stabilito il silenzio, riparti con ‘I vermi in movimento’ e con una domanda:
Che fanno e che vogliono, questi vagabondi
son loschi furfantelli e zingarelli immondi
Chi li monta, chi li plagia questi adolescenti
sono veri demonietti e per nulla innocenti
Mettono in pericolo le nostre proprietà
e questo gran casino si chiama libertà?
Cos’è questo disordine, cos’è quest’anarchia
rispettate l’ordine e la santa gerarchia
[…]
Bambini migranti, stupidi bambini
siete poveri illusi, non fate i cretini
fermatevi per dio, la legge, lo stato
fermatevi per dio, il profitto e il mercato
Bambini migranti, stupidi bambini
il mondo non lo salvano certo i ragazzini
il mondo non lo salvano certo i ragazzini
I vermi in movimento nasce come canzone/poesia che recitavo in uno spettacolo teatrale all’aperto del 2000, ispirato alla ‘Crociata dei bambini’ che si svolse all’inizio del XIII secolo con esiti poi tragici. L’ho voluta recuperare dopo oltre due decadi perché il movimento migratorio di un esercito di bambini straccioni implementato da mendicanti, ragazzine incinte, sbandati e prostitute di ogni risma, non poteva non farmi pensare all’arrembante esodo migratorio attuale lungo una rotta nel Mediterraneo inversa a quella medievale. Inoltre, nel brano il punto di vista poetante è quello della società ‘perbene’ che condanna ed esecra il disordine portato da chi migra, esattamente come avviene oggi nella maggioranza dell’opinione pubblica delle società europee. E quel distico finale del ritornello “Bambini migranti, stupidi bambini / il mondo non lo salvano certo i ragazzini”, si pone palesemente come antifrasi (ahimé realistica) di un famoso testo sessantottesco di Elsa Morante (“Il mondo salvato dai ragazzini”).
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