PER IL TRAMITE DELLA LETTERATURA 10 a

COME LA PANDEMIA DA COVID-19 È DIVENTATA L’INSONNIA DEL XXI SECOLO

di Lorenzo Gafforini*

a R.

«Felici i posteri, che non avranno conosciuto queste disgrazie e crederanno che la nostra storia sia una favola!»

FRANCESCO PETRARCA, Familiarum rerum libri

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Capolavoro italiano ambientato nel 1943 è La pelle di Curzio Malaparte, un romanzo con venature da reportage giornalistico. L’incipit è esemplificativo: «Erano i giorni della “peste” di Napoli»[1]. La città partenopea, infatti, vede l’ingresso degli Alleati come liberatori dalla dittatura nazi-fascista. Nonostante si tratti di un’epidemia metaforica che colpisce lo spirito, Malaparte ci rende partecipi di una vera e propria isteria collettiva che coglie il popolo napoletano. I liberatori convinti di incontrare un popolo grato e recettivo trovano, invece, un inferno dominato dall’osceno e dall’egoismo. Anche in questo caso, la popolazione viene colta da un evento imprevisto che li costringe e rivedere le proprie priorità e adattarsi. Il trauma è dietro l’angolo e, come sempre, coglie impreparati.

Nel secondo capitolo, intitolato La Vergine di Napoli, Malaparte scrive: «I popoli d’Europa, prima della liberazione, soffrivano con meravigliosa dignità. Lottavano a fronte alta. Lottavano per non morire. E gli uomini, quando lottano per non morire, si aggrappano con la forza della disperazione a tutto ciò che costituisce la parte viva, eterna, della vita umana, l’essenza, l’elemento più nobile e più puro della vita: la dignità, la fierezza, la libertà della propria coscienza. Lottano per salvare la propria anima. Ma dopo la liberazione gli uomini avevano dovuto lottare per vivere. È una cosa umiliante, orribile, è una necessità vergognosa, lottare per vivere. Soltanto per vivere. Soltanto per salvare la propria pelle»[2].

Significativo risulta essere anche un altro capolavoro di Gabriel Garcia Márquez: Cent’anni di solitudine. Fin dai primi capitoli del romanzo, l’autore comincia a descrivere una strana malattia che infesta il paese di Macondo: si tratta di un’insonnia che ha come conseguenza principale la dimenticanza. Oltre la valenza sociale e filosofica che questo determinato morbo rappresenta, Márquez precisa come il primo interesse degli abitanti del paese sia proprio quello di arginare il diffondersi del flagello tramite una quarantena autoimposta. In particolare, i sani sono tenuti a indossare delle campanelle in modo da informare i malati del suo arrivo. Al forestiero non «si permetteva né di mangiare né di bere nulla durante il soggiorno, perché non c’era dubbio che la malattia si trasmetteva soltanto per bocca, e tutte le cose da bere e da mangiare erano contaminate di insonnia»[3].

Le misure attuate dagli abitanti di Macondo ebbero comunque successo, tanto che lo stato anormale divenne presto parte della routine di tutti i giorni e «lo stato di emergenza venne considerato come cosa naturale, e si organizzò la vita in modo tale che il lavoro riacquistò il ritmo e nessuno si preoccupò più dell’inutile abitudine di dormire»[4]. Inoltre, gli abitanti cominciarono persino a ingegnarsi al fine di non dimenticare il nome delle cose: infatti, questi vengono scritti sopra i vari oggetti. Ma gli abitanti non si limitano a questo: «in tutte le case erano stati scritti segni convenzionali per ricordare gli oggetti e i sentimenti»[5]. Un’epidemia inedita, dunque, che colpisce la nostra memoria già labile. Consapevole delle debolezze umane, Márquez riesce a collezionare migliaia di tasselli restituendoci u’opera stupefacente, capace di analizzare la caducità dell’essere umano e la labilità della mente o, più nel dettaglio, della memoria collettiva.

Per ritornare alle opere italiane, non si può non citare Dissipatio H.G. di Guido Morselli. L’ultimo romanzo di Morselli vede al centro delle proprie speculazioni la crisi di un essere umano – residente nell’immaginata Crisopoli – che decide di suicidarsi «per il prevalere del negativo sul positivo [di] una prevalenza del 70 per cento»[6]. Tuttavia, il suicidio in un luogo isolato del protagonista non riesce. Tornando alla propria abitazione e concedendosi un sonno ristoratore, al suo risveglio constata – anche se la rivelazione non è immediata – che la razza umana è scomparsa dalla faccia della Terra, lasciando il proliferare della natura e degli animali[7].

Un’analisi unica della psiche umana che, ancora una volta, riprende il concetto di degenerazione dei tempi. Il romanzo è scritto nei primi anni Settanta e Morselli, per bocca del suo protagonista constata come «gli uomini hanno scatenato, in trenta secoli, circa 5.000 guerre. Hanno avuto il torto (la trovata risale a Albert Camus), se non di cominciare la Storia, di proseguirla. Io non li condanno. La loro colpa peggiore, o più recente, era l’Imbruttimento del mondo. Si usava aggiungere altre imputazioni: l’Inquinamento, l’Inferocimento (anzi, con eufemismo, la violenza). L’Inflazione. (Senza eufemismo: la peste monetaria)»[8].

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Note

[1] C. Malaparte, La pelle, Adelphi, Milano, 2010, p. 13.

[2] Ivi, p. 48.

[3] G.G. Márquez, Opere, Utet, Torino, 1986, p. 242, trad. di Enrico Cicogna.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 243.

[6] G. Morselli, Dissipatio H.G., Adelphi, Milano, 2019, p. 18.

[7] Lo scenario prospettato, con le dovute differenze, ricorda la metropoli infestata dalla natura e da belve selvagge e feroci nel celebre film L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam.

[8] Ivi, p. 63.