Recensioni
La svolta della strada 2, Marco Giovenale
a cura di Marco Giovenale
(note sul possesso in Ferro 3, di Kim Ki-duk)
2
Altro segno evidente (più eloquente perché muto) dell’indifferenza al possedere, al possesso, all’invasione anche linguistica dello spazio altrui, si nota nell’abitudine del protagonista a ritrarsi in autoscatto insieme a scorci della casa che di volta in volta occupa. Così facendo, non presidiando con la sua figura l’intera fotografia, mette fuori gioco l’illusione di uno specchio unificante che ne renda piena l’immagine. Nemmeno ruba alcunché alla casa stessa: ne asporta un frammento, un ritaglio, e sempre e solo in figura, mai materialmente.
Nonostante ciò, un residuo di violenza, e in fondo anche di possesso relativo a un oggetto, si concentra nella palla da golf che il protagonista sottrae alla casa del marito di Sun-hwa. Per esercitarsi, fora la pallina, la passa da parte a parte con un filo di ferro che poi modella in forma di cerchio per poterla fissare a un qualsiasi albero ed esercitarsi a colpirla con la mazza senza che quella sfugga mai. La pallina può essere colpita moltissime volte senza spostarsi dall’albero a cui è ancorata. Possesso della pallina da golf, dunque, come strumento di esibizione e spreco di energia. Un po’ come la protagonista era legata, vincolata al marito, non potendo fuggire, e venendo picchiata.
Non è un caso che Sun-hwa si opponga al violento (e finto) gioco del golf con palla prigioniera, o imprigionata, che l’altrimenti libertario Tae-suk mette in atto. Coglie immediatamente la natura allegorica di quel vincolo, di quel possesso (la pallina ancorata all’albero, che non solo non può sfuggire ma deve inevitabilmente essere percossa). E dunque si mette di fronte a Tae-suk di fatto impedendogli di continuare.
Sun-hwa giustamente non accetta nemmeno questa violenza disinnescata: non la ritiene accettabile. Nemmeno come opposizione alla crudeltà, come reindirizzamento di energie.
A conferma di quanto fin qui detto: una delle scene più impressionanti e significative del film è quella in cui ogni violenza e ogni presenza e possesso e linguaggio vengono azzerati dalla morte. Il proprietario di una casa che i due personaggi visitano è lì, disteso in terra, morto da alcuni giorni. Qui il “socialmente inaccettabile” ha il suo picco estremo: i due non si perdono d’animo, e non ritengono la morte un reale motivo per allontanarsi, ma al contrario riconoscono nell’uomo definitivamente privo di ogni potere un fratello da onorare, e ne organizzano – in modo del tutto illegale e inaccettabile per la morale corrente – gli onori di una sepoltura curatissima, e officiata, si direbbe, quasi con affetto di familiari.
A tutto questo si oppone la ricomparsa e la furia del marito di Sun-hwa, la corruzione dei poliziotti che accettano denaro per fargli picchiare Tae-suk (possesso, potere), e infine il carcere, dove il corpo del protagonista è definitivamente (ma anche apparentemente) owned, rinchiuso, prima con altri, poi da solo.
Isolato, lo vediamo in una celletta dove tuttavia riesce a completare la sua trasformazione in ombra, in entità inafferrabile perché non afferrata alla vita intesa come possesso e dominio.
Dal momento in cui, non sappiamo come (perché anche noi spettatori siamo presi di sorpresa, alle spalle, da Tae-suk), il protagonista riesce a sfuggire alla legge, eccolo ricomparire come ombra costante ma assolutamente invisibile.
Cosa vediamo dunque? La sua è l’invisibilità del fantasma, che solo Sun-hwa può vedere? Tae-suk in realtà è morto e solo la sua amata può ormai – in allucinazione o realmente – vederlo? Oppure ha davvero infine imparato la più sottile delle arti del silenzio, della scomparsa, quasi perdendo possesso della propria stessa fisicità, e riesce a nascondersi a tutti pur restando presente? Il bacio che gli amanti si scambiano nonostante la verbosa presenza del marito di lei sembrerebbe farci scegliere l’ultima ipotesi.
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