Interviste
third culture kids, Emily Weinreich (I)
Emily Weinreich, nata a Berlino nel 1999, ha studiato nelle scuole internazionali di tre diversi continenti, parla italiano, tedesco e inglese, vive tra Berlino e Roma insieme alla gatta Tina. Lo sanno che cantiamo il mattino, Gattomerlino 2023 in edizione bilingue, è la sua prima raccolta e la vede nella doppia veste di autrice, in inglese, e auto-traduttrice, in italiano. Una poesia non costruita, in cui non mancano elementi grafici – la disposizione delle parole nello spazio della pagina con un senso che ne suggerisce l’andamento ritmico, più veloce o meno veloce – e strumenti assodati come quello della ripetizione.
PIAZZA SCANDERBEG ALLE CINQUE
Shqiperi – sh-chee-pe-ree – shqiperisë – sh-chee-pe-ree-se –
Terra dell’aquila.
Così la guida, vestita di rosso
come il cappello e la bandiera gemella che ondula dietro
e nel caldo Vera prende l’acqua – faleminderit –
rinfrescandosi le caviglie nel fiumetto della piazza
deserta, un vuoto di trasloco
sul forno di pietra al sole.
Un soldato a cavallo, l’unico giocattolo lasciato per farci
da guardia.
Skënderbeu – Scanderbegh – Skenderbeu –
Scivola per la lingua del turista
che non s’impone il rispetto.
All’ombra solo la brezza del sospiro del gruppo.
Sotto il sole senza il richiamo di imbonitori fasulli
(ricorda Madrid, ¡hola guapa!)
né di venditori ambulanti
(amico, vuoi questo braccialetto, porta fortuna).
L’estate in silenzio, nel sottofondo il mormorio familiare
mercantile.
Adesso sono le cinque e sarà tranquillo fino a domani.
Solo il turista solitario con un drone attraversa la piazza
(dov’è il centro commerciale?)
A sinistra quattro fontane, Vera dice che sono rotte – un
pasticcio idraulico –
e l’acqua scorre per terra, ruscelli magri
sotto i sandali.
L’iniziativa – dice la guida – per rinfrescare la piazza ché
possano attraversare gli anziani – dice lei – e i bambini
giocare.
E ecco la perdita spiegata. Vera con i piedi bagnati
ma la faccia rilassata.
Tirana e Roma, Tiranë e Romë
un’altra Roma da quella che conoscono quegli stessi turisti.
Ho raccontato a Vera che Tirana mi sembrava la Roma
che non conobbi
che vive sotto gli scavi
una Roma che respira nelle piazze vuote,
urla sfrenate dalle strade (a Tirana forse si aggiunge
l’Adhaan)
che salgono fino ai palazzi su strade impolverate
– forse qui sogno pure Islamabad.
Viaggiamo nei minibus
– quaranta lek per un biglietto (dieci centesimi? Non ci
crediamo) –
con le porte piegate aperte al respiro del traffico.
Le famiglie si riversano sui marciapiedi a pranzo, il
teatro balcanico e mediterraneo
con i saluti allungati
quando la giornata finalmente finisce,
baci sulle guance, gli uomini il cappello in mano.
E il tiberino, un filo – avete visto il fiume? (mia mamma)
– l’arteria della città.
Qua vidi la mia Roma, trovai mia nonna dieci volte nei
mercati di Tirana.
Chiedo qual e il loro Trastevere – ci vediamo al castello?
(La guida: non è un vero castello).
Allora ai bunker?
(Troppi bunker).
Vediamoci allora alle dieci davanti al museo col murale.
Quel murale che potrebbe occupare la parete di casa
mia, lo studio di mio nonno.
Il murale che comanda il Lenin-fermacarte di mia zia
o le lacrime di mamma quando sente l’inno sovietico.
Le facce quadrate voltate tredici volte – tredici sguardi –
marciando a tempo verso lo stesso futuro alle mie spalle.
Mi voltai per trovarlo,
vidi invece i piccioni a bagno, Vera che beveva.
Leggendoti ho pensato alle città invisibili: passi da un posto all’altro, sei quasi itinerante, ma la sensazione che se ne ricava è quella di molti fermo immagine, evochi i luoghi, senza mai chiarirli del tutto. C’è sempre un velo a proteggerli.
Ho passato l’infanzia all’estero con i miei, che lavoravano per la Croce Rossa Internazionale. Ogni due, tre anni si cambiava paese, scuola, amici, casa. È stata per prima cosa una ricchezza – ho visto tanti paesi, vissuto culture diverse, sentito lingue che non conoscevo. Sono stata estremamente fortunata. Mamma e papà facevano di tutto per rendere ogni posto “casa”, con i nostri oggetti, il cibo, la musica, la cultura di famiglia. Però c’è sempre l’altro lato, la sensazione di avere un piede fuori dalla porta, pronta per ripartire. Ero immersa, ma allo stesso punto osservatrice. “Outside looking in.” Quelli cresciuti come me (in inglese “third culture kids”, anche se non mi piace usare questo termine) hanno un’idea di casa più scivolosa. Il senso d’identità diventa molto prezioso, molto sacro. È difficile capire esattamente chi siamo, perché lo siamo, soprattutto quando si cresce in paesi diversi, senza un’idea stabile di “casa”. La fortuna è che da piccoli impariamo quasi immediatamente che “casa” è un sentimento astratto che viaggia e cresce con te. Forse è quello che cerco nelle città, nei posti di cui scrivo. Mi sento un estraneo familiare. Osservo i posti che non conosco per trovare qualcosa che ricorda casa, dove mi riconosco. La gioia (il paradosso?) dell’itinerante.
Parlami dell’auto-traduzione. L’autrice sei tu e sei tu a decidere cosa e come tradurre, a cosa rinunciare e cosa privilegiare. Temo però che non sia così semplice. Intanto, poesia e traduzione sono nate in tempi non coincidenti. Alcune scelte, a partire dai primi due versi de ‘Il fagiano e la montagna’, sarebbero state difficili per un traduttore esterno. E tu sei riuscita a preservare sia il senso sia il suono.
Forse non si tratta tanto di una traduzione quanto di una riscrittura. Come hai visto, non sono sempre fedele all’originale quando lavoro come auto traduttrice, o almeno non mi sforzo di esserlo. È stato un lavoro abbastanza intuitivo, proprio perché potevo permettermi di cambiare alcune cose senza avere paura di creare un’opera nuova.
Non troverai facilmente una traduzione letterale nella raccolta, ma alcune poesie ci si avvicinano molto: “Orsetto lavatore”, “Anatre”, “Ravanelli”. Altre chiedono un approccio più approfondito. In quei casi è più una questione di come affrontare il testo originale, se cambiare certi riferimenti per il pubblico nuovo, o se aggiungere un altro modo per vedere l’immagine del testo, come accompagnamento. Poi ho lavorato con una mia cara zia per tradurre dall’inglese, e con lei imparavo parole nuove, e mi allontanavo sempre di più da una traduzione letterale proprio perché alcune parole, o non esistevano in italiano o non suonavano bene.
Alcuni pezzi li ho immaginati come accompagnamento all’originale, per approfondire il tema, i personaggi, le immagini. Questo lo trovi esplicitamente nella poesia “Maddalena”, che inizia diversamente dall’inglese, ma che aggiunge solo all’immagine di Maria Maddalena. In inglese è una maestra, una leader, un’autorità, mentre in italiano è anche una sorella, un’amica, la beata. Per prima cosa la traduzione letterale non era soddisfacente (“io sono una maestra”, ecc.). Quindi rileggendo il testo che mi ha ispirato (il Vangelo di Maria, su cui ho fatto la tesi della triennale: https://giuseppemerlino.wordpress.com/2013/06/27/il-vangelo-di-maria-maddalena-testo-integrale/) ho trovato una nuova interpretazione del personaggio di Maddalena, che ho inserito nella traduzione italiana. È stato un lavoro molto bello, molto serendipitoso. Alla fine, un bilingue trova due interpretazioni, entrambe importanti, di Maria Maddalena.
Un approccio diverso lo trovi nella poesia “Ritorno”, in inglese “Comeback”. Nell’originale è il Gesù Cristo del “Monte Rushmore”. In italiano è il Gesù Cristo di “via Ricasoli”, dove si trova il David di Michelangelo, nella Galleria dell’Accademia a Firenze. Il Monte Rushmore è più presente nella sfera culturale americana/internazionale, in cui sono cresciuta, che in quella italiana, dove il concetto è più estraneo rispetto al, per esempio, David di Firenze. Qui ho dovuto considerare un attimo il pubblico e adottare un riferimento più vicino al background del lettore italiano. Entrambi sono opere d’arte in pietra con implicazioni politiche, diverse ma comunque l’idea rimane.
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