Solitarie scritture: Hei Wen (parte 2)

a cura di Elisa Audino

continua […]

 

 

estratto da il rock di nessuno

 

in questo mondo c’è suicidio

e masturbazione

se non ci credi esci a fare un giro

osserva senza farti vedere

strade vuote

vuoto te

cancelli di edifici vuoti

si dice

sia il disegno della stella del dio plutone

sia il grido che viene dallo spazio profondo

 

in notti sigillate

ammirata come un pezzo di formaggio

vicino a due morsi di aria fatata

mi rivolgo alla grande umanità

mi rivolgo alla nobile morte

e rimprovero me stessa

 

vivere da eroe

è come scegliere l’inevitabile

quel fiume invernale

pieno di catarro e male

perché il mondo non si ferma

è in stasi

 

Il secondo elemento: una sorta di rimbombo nel vuoto, come se il monastero non fosse mai scomparso del tutto. Hei Wen arriva, sebbene chiara nelle immagini, come una donna del mistero.

Mi fa piacere che tu abbia questa sensazione, vuol dire che sono riuscito a trasmetterla. Credo anche io sia così e ho provato, imperfettamente, a ricreare quell’alone di eco-rimbombo-ovattamento-velo.

Hei Wen, come persona, è particolare. Abbiamo chiacchierato a lungo, ci siamo scontrati, abbiamo riso e ci siamo arrabbiati. Siamo due caratteri forti, per alcuni versi simili, seppur diversi. Ho provato diverse volte a scavare, a chiedere maggiori informazioni, anche ai fini della pubblicazione, ma è una personalità complessa e riservata. La definirei quasi ferita e teatrale. Preferisce il mistero e rimanere oltre il sipario del vedo non vedo, nell’indefinito. Un po’ come alcune delle sue stanze poetiche.

 

nel covone

 

salutando il crepuscolo respiro

l’intimità con dio

poi torno ad aver nostalgia di te

la sensazione di quando mi manchi

è come quando divori una gran quantità di romanzi

 

a bordo strada c’è un covone

ci ficco la testa

e grido

“perché?”

 

poi una mezza mano ci s’infila brusca

non per tergermi le lacrime no

è una mezza mano che vuole staccarmi la testa

 

è buio

qualcuno con una luce

si avvicina al covone

e grida

“vattene, mostro che non sei altro!”

mi strattona fuori

e il mio cervello diventa una scienza

 

la sensazione di quando mi manchi

è un’impressione sbagliata di continui sbagli

se qualcuno sapesse

mi farebbe a pezzi di sicuro

 

Sul terzo elemento, lo hai un po’ anticipato nella tua risposta precedente, perché se da un lato c’è sempre una sorta di controllo, dall’altra c’è un protrarsi – lo slancio lirico – immaginifico o onirico, come se fosse in grado di creare qualsiasi cosa restando ferma nello stesso punto.

Qui annuso un po’ di psicologia cinese. La loro cultura, per diversi aspetti, è molto diversa dalla nostra. Filosoficamente parlando in primis. La visione della vita e di tutte le sue variabili incide molto sul modo di pensare, di interagire, di vivere e di fare arte. Il tempo, specialmente, non si sviluppa linearmente così come lo intendiamo noi. Anche linguisticamente, in cinese “non esistono” i tempi. Il tempo è un flusso che si attorciglia su se stesso, sui suoi tre livelli (passato, presente e futuro) come fossero distinti e tutt’uno, contemporaneamente, appunto. Non scordiamoci che la Cina ha una tradizione filosofica, numerologica, divinatoria, religiosa antichissima. L’I Ching, il libro dei mutamenti, ha influenzato il modo di intendere, pur non intendendo, questo tempo che spazia tra le dimensioni temporali, non spaziando. Il Tao ha cambiato profondamente il mio modo di vedere la vita (quindi tutto); su questo, credo, che la Cina abbia molto da insegnare a noi occidentali, ancora troppo chiusi nelle nostre dinamiche parziali e un po’ ottuse di matrice cattolico-aristotelico. Difficile spiegare ciò di cui in realtà bisognerebbe fare esperienza diretta fin quando è necessario. Il quanto non aiuta è l’attimo che illumina. Ci si può mettere un secolo (ah davvero?) o un secondo (impossibile?)… non a caso, comunque, ho usato la parola esperienza. Studiare non è sufficiente. È conditio sine qua non, ma non fine. Lo studio della cultura cinese è solo uno strumento per andare oltre, non è un fine egoistico: impossessarsi di una cultura per soddisfare vuoti. Ciò che ho sempre cercato di fare e cerco ancora di fare è immergermi nel fiume, che non è mai uguale a se stesso, e uscirne ammantato di particelle nuove.

Purtroppo, trovo molta difficoltà a parlare di questo, di cui non si può parlare, specialmente in Occidente, perché siamo troppo profondamente e orgogliosamente figli della nostra cultura. La nostra tradizione è inquisitoriamente cieca. Ma anche da questo possono nascere percorsi. Anche nella cecità si nascondono percorsi imprevisti…

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